sabato 26 febbraio 2011

La Rivoluzione Francese e l’esplosione del Nord Africa

Le cause della Rivoluzione Francese

Prima del 1789, la Francia era una monarchia assoluta legata alla tradizione medioevale. Il Re, fiancheggiato dal clero e dalla ricca nobiltà, deteneva i tre poteri. Lo stato era incapace di adeguarsi ai mutamenti in atto e opprimeva le masse, ormai vessate da sgravi fiscali. L'invio di truppe e rifornimenti per sostenere gli Americani in lotta contro gli Inglesi aggravò la pesante situazione economica francese già in crisi perché vincolata all'agricoltura. La tassazione nei confronti dei contadini aveva raggiunto il limite di sopportazione, già minato dagli esosi oneri signorili ricollegati ad un antico sistema feudale. Il peggioramento inesorabile della condizione contadina fu anche dovuto alla crisi che sconvolse la produzione cerealicola del 1787 a causa di disastri meteorologici
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Le analogie con le Rivoluzioni Nordafricane attuali

Fino al 2010, la Tunisia, l’Egitto, il Marocco, l’Algeria e la Libia sono state rette da sistemi dittatoriali o pseudo democratici, dove le figure di gerarca supremo sono state normalmente imposte o sostenute da movimenti militari , cui fa eccezione il Marocco monarchico ma, come gli altri, dotato di Costituzioni che ben poco rispecchiano i principi di uguaglianza e di libertà.
Da rilevare che anche in questi Paesi la religione, o meglio, i suoi tribuni interessati, hanno influenzato sensibilmente il corso degli eventi politici. Infine quella che in Francia era la ricca nobiltà, qui è una classe borghese che sostenendo la gerarchia politica, ha intrallazzato sfruttando le risorse naturali ed umane. Corruzione dilagante.
Si indica come causa scatenante quella dei rincari dei generi alimentari motivata dalla crisi economica mondiale, ma forse la cosa è molto più complessa.
Non credo che ci si sia mossi semplicemente osservando la riuscita dell’insurrezione tunisina, bensì prendendo coscienza di valori di libertà e del diritto di esistere, acquisiti dalla crescita della culturalizzazione delle masse e dalla esasperazione di giovani, anche diplomati o laureati che abbiano visto, attraverso TV ed Internet, l’esistenza di un mondo attorno a sé che però a loro veniva negato. Grande fenomeno quello della comunicazione di massa che dopo l’era industriale, è forse stato ed è, quello che ha veramente cambiato il modo di vivere e di pensare delle persone.
Inoltre, gli emigrati in Europa hanno riportato, tornando a casa, immagini di benessere, di guadagno, di libertà, di qualità della vita toccate con mano e quindi a conferma di quelle televisive o ricavate da Internet. E’ certo che l’incremento della disoccupazione, senza l’ombra di ammortizzatori sociali, non può che aver complicato le cose esacerbando gli animi, ma le percentuali sono salite di poco sia pur su base dati piuttosto elevate. I regimi dominanti, fondamentalmente laici nei fatti, hanno vissuto precari equilibri e spesso sono stati avversati da un islamismo dai cento volti tra cui quello integralista, a sua volta strumentalizzato spesso da un terrorismo politico.
Non dimentichiamo lo scarso o nullo significato delle elezioni a cui noi, mondo occidentale, diamo un grande significato di democrazia, mentre in quei Paesi è solo lo strumento usato per auto certificare agli occhi del mondo le scelte autoritarie predeterminate attraverso partiti monocratici.
Vedi anche che lo stesso sistema è usato da sempre a Cuba, in Cina, in Russia o in alcuni Stati centroamericani o ex sovietici dove è il partito al potere ad osteggiare l’opposizione sia con leggi “ad hoc” sia con mezzi coercitivi.
Va anche detto che tenere insieme popolazioni tribali con le rispettive e vive culture e realtà sociali di enclave, richiede sicuramente una guida forte ed univoca non facile da giostrare tra rispetto delle autonomie e interesse comune. Di conseguenza il passaggio ad una democrazia di fatto è tutt’altro che semplice e breve nel tempo. La Polonia e l’Ungheria ne sono un recente esempio conclusosi positivamente ma con sacrifici ed attese.
Si potrebbe dire che tutti i regimi autoritari hanno, prima o poi, mostrato il loro tallone di Achille perché come disse Giulio Andreotti: “Il potere logora chi non ce l’ha”, ma sviluppa un senso di onnipotenza che inevitabilmente porta a perdere di vista la realtà da cui ci si innalza. La massa del popolo a cui sono state fatte promesse, magari inizialmente mantenute, e per questo innalza il proprio idolo al potere supremo, prende coscienza dell’illusione in cui si è cullata e constata che nel tempo ben poco cambia per sé. La ricchezza ed il potere diventano insieme l’unico obiettivo dei potenti sempre più attorniati da “pares inter pares”. Questo è sempre stato fatto da tutti i dominatori e condottieri che la storia ci racconta. Bagni di sangue umano nel nome del potere e di presunti ideali, da Gengis Khan ad Alessandro Magno, dopo essere passati da Giulio Cesare e poi Costantino, passando per le Crociate e per le stragi dei Pellirosse americani (i cattivi dei film del Novecento), da Mao Tse Tung ai Khmer Rossi ed alla Rivoluzione bolscevica. Le stragi per il controllo del petrolio in Asia e dell’agricoltura somalo-eritrea. L’apartheid “dei diamanti” in South Africa. Ed ora nuovamente il petrolio, i giacimenti di minerali, l’agricoltura e la lotta religiosa integralista in un contesto estremamente articolato e pericoloso.
Problemi politici per un futuro incerto anche se reso meno esplosivo da una globalizzazione degli interessi reciproci.
La Cina si è espansa più di altri in Africa ed ha investito cifre importanti per sostenere il proprio sviluppo, ma a sua volta deve guardarsi dalla crescita interna troppo veloce che finirebbe per creare tensioni sociali pericolosissime non più gestibili come fu fatto drammaticamente in piazza Tien’anmen.
La Germania ha assorbito la fusione con la Repubblica Democratica ed ha diversificato l’espansione economica presentandosi per prima in Cina, poi nei Paesi ex Unione Sovietica, in Brasile e poi in Africa.
Gli USA, tradizionali dominatori economici degli Stati Centro Americani, hanno interessi diffusissimi in tutta l’Asia oltrechè in Europa ed Africa.
Il Giappone, con USA e Cina detiene le maggiori banche mondiali e gli Istituti Finanziari con riserve gigantesche di dollari e di euro.
La Russia, ultima potenza ad affacciarsi sul mondo economico internazionale, controlla le maggiori riserve mondiali di gas(35%), di petrolio(5%) ed ha mostrato una capacità di adattarsi al capitalismo che si potrebbe definire sorprendente rispetto al comunismo propugnato fino a meno di vent’anni fa e che oggi mostra in una immagine molto sbiadita rispetto ad una Cina sostenitrice del comunismo capitalistico. Non è dichiarato ma basta andare là per vederne l’applicazione pratica.
Tutti sono lanciati verso la conquista di mercati con l’utilizzo di ogni tipo di strategie, da quella militare giustificata da “peace keeping” a quella politica degli aiuti “umanitari”, a quella economica della maggiore competitività dei prezzi. Manca solo quella religiosa che oggi è usata solo da gruppi definiti terroristici e razziale per il ben noto problema dell’intolleranza etnica. Forse perché alcune delle grandi potenze sono multiconfessionali e multietniche, ma soprattutto laiche.
Gli interrogativi politici di chi guarda ai sommovimenti africani di questi giorni, cioè di tutti i Paesi citati, vanno proprio nella direzione di capire quali vantaggi possano essere colti e quali svantaggi evitati. Non è certo la momentanea riduzione di qualche milione di barili di petrolio e di metri cubi di gas, (Tutti insieme i Paesi africani in subbuglio hanno riserve di gas e petrolio pari al 4%) o l’uccisione di qualche centinaio di persone “ribelli al regime” ed onesti eroi del cambiamento politico, (a parte i giornalisti che trattano questi temi che sono i più vicini al comune cittadino per vendere i giornali), ad angosciare nessuno dei Grandi Burattinai.
Infatti modificando di qualche punto percentuale gli approvvigionamenti di petrolio e gas, da questo o quel Paese, piuttosto che accusando di stragi e di uso improprio della forza i dittatori caduti in disgrazia sociale, vengono risolti gli aspetti sensibili alla cronaca quotidiana.
Il vero problema è: “Come questi fatti potranno modificare gli interessi economici e turbare gli equilibri politici utili alla realizzazione dei rispettivi Piani Strategici?”.
Qui la domanda, nel tempo la risposta.

domenica 20 febbraio 2011

Tasse: più guadagni meno paghi, chissà perchè?

È giusto che una banca, un fondo, o addirittura una multinazionale paghino meno tasse - in termini di aliquota, ovviamente - di un lavoratore dipendente?

A giudicare dalla protesta che sta montando tra Londra e New York, la forbice delle aliquote tra redditi personali e redditi d'impresa si è allargata a un punto tale da generare situazioni paradossali se non grottesche: a titolo di esempio, basti pensare che Blackstone, il colosso dei fondi di private equity, ha pagato le tasse al fisco Usa con un'aliquota dello 0,4%, un sogno irrealizzabile per qualunque lavoratore o per le tante piccole imprese la cui aliquota fiscale è inchiodata al 35 per cento. Ancora più incredibile è il caso della Barclays, contro cui si è scatenata l'ira dei contribuenti inglesi: la banca ha pagato nel 2009 solo 113 milioni di sterline di tasse, circa l'1% degli utili. Una manciata di spiccioli, soprattutto se si tiene conto che la banca ha premiato i dirigenti con bonus per 1,5 miliardi di sterline. Nessuno mette in dubbio l'utilità di alcune agevolazioni e incentivi fiscali che permettono a imprese e banche di pagare meno tasse. Ma un riordino - in Usa come in Europa - renderebbe più trasparente il sistema e meno irritante per il contribuente pagare allo Stato l'odiato tributo.
Mettere bene a fuoco la politica italiana al riguardo potrebbe aiutare a prevenire una rivolta popolare contro la disuguaglianza di trattamento tra il sistema finanziario ed il reddito individuale. Il primo con mille scappatoie ed aiuti ed il secondo tartassato da sempre ed oggi inquisito di "nascondere redditi non dichiarati in base ai propri consumi rilevati dallo spesometro". Giustissimo cercare di colpire chi deliberatamente sceglie la strada della disonestà fiscale ma sarebbe meglio non incentivarla con esempi esecrabili che leggiamo quotidianamente sui giornali o semplicemente la percorre perchè strangolato da un sistema borbonico di burocrazia e di sprechi. I padri fondatori della nostra Costituzione erano esempi di moralità, modestia e rigore di vita, che fossero di questo o di quel partito, mentre i manovratori che ne studiano "l'attualizzazione" sembrano avere "ben altri doti" anche se certamente "molto più attuali". Festeggiamenti per il 150° dell'Italia? Beh, proprio TANTI AUGURI, perchè nei hai veramente bisogno!

mercoledì 16 febbraio 2011

Marchionne ed il cambiamento: da che parte va l’etica manageriale

Stralciando dalle dichiarazioni di Marchionne quella che recita, più o meno testualmente: “Non ho nulla da chiedere alla politica”, mi ritornano in mente le frequenti visite di Gianni Agnelli ai “palazzi romani” negli anni fra il ’70 e l’80. Nulla di illegittimo, credo, ma in quegli anni erano successe molte cose come, dopo la migrazione dal Sud con la valigia di cartone, fossero venute richieste sostanziose di CIG per migliaia di dipendenti Fiat. Alcune chiusure di bilancio vedevano come risultato, le vendite forzate ai concessionari e la stabilità finanziaria garantita dal loro obbligo di pagare alla consegna. Da non dimenticare la politica strozza fornitori con prezzi imposti e margini risicati con pagamenti oltre i 180 giorni. Progressiva distruzione della Lancia e dell’Alfa Romeo con una “collaborazione” ottusa dei Sindacati. Sul mercato pochi modelli ed una qualità sempre meno accattivante. La contraddizione di una gestione che in questo modo ha portato la Fiat sull’orlo del fallimento. Non facciamo nomi ma riconosciamo che l’etica manageriale di porre il massimo impegno per raggiungere il massimo profitto, aveva virato verso obiettivi molto più individuali o meglio egoistici. Top manager celebrati dalla politica e dai salotti, visioni strategiche di corto raggio, commistioni non facilmente decifrabili tra gli investimenti privati ed i finanziamenti pubblici.
Ora scopriamo che un manager italo svizzero, conoscitore e frequentatore di ambienti finanziari, detta delle regole che un dirigente come me, di ben minore livello, darebbe per scontate: “Aumentare la produttività degli impianti per portarli dal 40% all’80%”. Ma, scusate, dove erano i manager fino a quel momento? Avevano forse le mani legate e la bocca cucita? Quale assurda logica può considerare accettabile una produttività del 40%? Dove erano i rappresentanti dei lavoratori della FIOM all’interno degli impianti per invocare la lotta contro l’azienda per sfruttamento dei lavoratori? Capisco i lavoratori stessi che, essendosi adattati a ciò che era prodotto, ritenevano di dare ciò che fosse il giusto.
Ma ora che una maggioranza di loro ha accettato, o dovuto accettare, un piccolo cambio di rotta rinunciando ad una parte dei cosiddetti “diritti acquisiti”, ecco che Marchionne esce con una dichiarazione che spiazza la vetusta politica sindacale e cioè: “All’aumento della produttività corrisponderanno retribuzioni in linea con quelle dei colleghi tedeschi o francesi”. Naturalmente con ingenti investimenti strettamente collegati ad un riposizionamento delle quote di mercato entro il 2015. Quanti denari richiesti al Governo? Apparentemente nulla e, a prescindere dal fatto che dall’Europa siano vietati gli aiuti di Stato ai privati, ci è proposta una visione strategica della crescita in controtendenza rispetto alla storia di un’azienda talmente importante da rappresentare una quota significativa del PIL.
Una mosca bianca? Direi di no, ma certamente se non rara, almeno particolare perché emerge da una realtà industriale molto grande e di esse ne abbiamo veramente poche in Italia se si considera che le PMI rappresentano mediamente l’85% delle aziende italiane ed ancora di più se ci riferiamo a quelle manifatturiere. Nel piccolo i cambiamenti sono in corso da anni ed hanno assicurato la sopravvivenza della stragrande maggioranza delle PMI in questa crisi. Ma nel piccolo i manager o sono titolari o sono interagenti strettamente con la proprietà ed i concetti di produttività ed incentivazione delle persone sono vissuti quotidianamente. Questo non significa che non vi siano atteggiamenti di soggettività, di paternalismo o di scarsa propensione alla valutazione dei collaboratori, ma l’obiettivo del profitto aziendale è chiaro.
Fare profitto a scapito dei collaboratori? Questo è lo slogan della FIOM e di coloro che insistono nella visione ideologica di un comunismo oramai morto da anni ma di cui si tenta di celebrare gli anniversari, quasi fosse una dottrina immutabile nel tempo e prescindente dall’evoluzione socio economica.
Marchionne dice di no e, preservandone il principio della redditualità, apre alla partecipazione societaria ed economica di coloro che la produrranno. A lui le linee guida, ai manager la tattica realizzativa del progetto e quindi l’applicazione etica delle azioni per raggiungere l’obiettivo valorizzando le competenze dei collaboratori ai diversi livelli. Credo che senza questa azione si ritornerebbe allo sterile confronto tra “operai e padroni”, dove franerebbero le buone intenzioni dei Sindacati firmatari degli accordi e le promesse di Marchionne e si esalterebbero le dichiarazioni della FIOM che oggi sono state prese in contropiede.
Si dice che Marchionne oggi sia solo, sì certo, finché la Confindustria rimane ferma alle parole della Marcegaglia e non realizza essa stessa un cambiamento interno volto ad essere una forte sostenitrice del cambiamento anziché spettatrice di vedere come vada a finire! (Prima di cambiare).
Resta una questione manageriale in cui coniugare la logica del profitto (senza cui non esisterebbero le aziende e quindi i posti di lavoro), con gli investimenti in Italia (su cui occorrerebbe un’azione di Governo) e la nuova gestione delle Risorse Umane in un bilancio etico.
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giovedì 3 febbraio 2011

Occupazione dei giovani, la loro formazione e la patrimonializzazione nelle Aziende

Ormai da tempo, produzioni e modi di produrre sono cambiati e ciò è dovuto soprattutto al fatto che le cosiddette “produzioni semplici e/o di massa” – salvo pochi casi e, in ogni modo, accompagnate da sistemi produttivi altamente qualificati e tecnologicamente avanzati – sono diventate patrimonio di Paesi a basso costo lavoro e, se ancora previsti, sia pure in quantità marginale, svolte da personale immigrato ed a bassa qualificazione.
L’esigenza di una sempre più elevata formazione è diventata un costante patrimonio culturale e gestionale delle nostre Imprese, senza peraltro dimenticare che una significativa tradizione formativa non è certo una novità del nostro mondo produttivo: basti pensare all’apprendistato, che sia pure tra alti e bassi, soprattutto per chi lo riteneva una forma di sfruttamento minorile, ha rappresentato una costante formativa che ha consentito a tanti giovani di diventare qualificati tecnici ovunque apprezzati

La scuola purtroppo non ha, né soprattutto lo fa, oggi: gli Istituti professionali non sono molto apprezzati dai nostri giovani che preferiscono altri tipi di studio - che peraltro non assicurano altrettante possibilità occupazionali - ed inoltre non sempre usufruiscono di docenti tecnicamente all’altezza delle effettive esigenze aziendali. A questo proposito sarebbe opportuno, ove possibile, “imprestare” come esperti/docenti, i nostri tecnici che, oltre a mettere a disposizione le proprie conoscenze ed esperienze, avrebbero anche la possibilità di conoscere e farsi conoscere dai ragazzi favorendo una selezione per eventuali, future assunzioni nella propria Azienda. Creando inoltre uno spirito aziendalistico a chi questo mondo non conosce o ne ha una sensazione distorta. Rimane sempre opportuna in ogni modo la pratica degli stage/tirocini, dal punto di vista di una reciproca disponibilità ed attitudine sul campo.

La prima e più semplice attività di formazione è pur sempre quella dell’affiancamento ad operai e tecnici già qualificati ed esperti, ma la messa a punto di piani formativi che uniscano alla fase più elementare aspetti maggiormente scientifici, sul campo ed in aula, sarebbero da percorrere il più possibile: non sempre ciò è praticabile soprattutto nelle piccole e medie imprese ed in particolar modo quando l’esigenza primaria è la produzione per rispondere alle sempre più isteriche esigenze di mercato; c’è peraltro chi “ha approfittato” opportunamente della crisi e dei tempi liberi che si sono purtroppo creati per investire in pratiche formative.

Nell’ambito della formazione, inoltre, sarebbe opportuno anche trovare spazio per la cosiddetta “plurimansionalità”, utile per le aziende, ma anche per i collaboratori che in tale specializzazione possono trovare una maggiore garanzia per la loro occupazione.

La realtà imprenditoriale di questi tempi fa ormai pensare che lo slogan “piccolo è bello” non è più molto attuale: le aggregazioni tra Aziende sono diventate all’ordine del giorno, se non addirittura le acquisizioni da parte di imprese più grandi e, a volte, di Gruppi multinazionali.
Per cui si rende necessario in questi casi un adattamento ai reciproci assetti formativi, portando ciascuno le proprie esperienze e le proprie metodologie.

Prescindere dalla formazione non è più possibile, se si vuole essere in linea con le attuali esigenze ed essere pronti ad accettare le sfide che i mercati ci impongono e questo ad ogni livello, operaio impiegatizio, quadri ed anche dirigenti.

Formazione ed esperienza, una volta acquisite, diventano inevitabilmente patrimonio personale, ma ogni impresa dovrebbe operare attentamente affinché tale acquisizione diventi patrimonializzazione aziendale.
Un personale qualificato e specializzato, sia nella progettazione che nella produzione e nell’assistenza, concorre a determinare un prodotto di elevata qualità ed affidabilità. E’ una caratteristica che distingue l’azienda e che, unitamente ad altri indiscutibili aspetti, ne caratterizza l’eccellenza.

La fidelizzazione del personale - e del patrimonio che rappresenta – è un obiettivo a questo proposito da perseguire, favorendo idonee condizioni di lavoro, economiche ed ambientali, creando sintonia con quanto il collaboratore auspica, favorendo possibilità di crescita e prevedendo, per quanto possibile, prospettive di durata nel tempo.
Certe pratiche del passato – forse un po’ meno nel presente – che per semplicità definiamo mobilità e magari anche “furto” di personale specializzato – furono origine di tanti guai, anche in chi doveva istituzionalmente gestire al meglio questo fenomeno e soprattutto ad indiscutibile detrimento di chi – Azienda – lo aveva formato, spendendo tempo e denaro.

E qui si potrebbe porre un legittimo interrogativo: è giusto che un’Impresa non possa privarsi di un dipendente con cui è venuta meno la fiducia ed al contrario un collaboratore possa andarsene quando vuole e/o gli conviene?
Ma questo è un altro tema. Ne parleremo semmai un’altra volta.

martedì 1 febbraio 2011

In Bulgari Gioielli spa il VII Forum Direttori HR : AZIENDE IN CAMBIAMENTO –

VII Forum dei Direttori del Personale

Il 21 gennaio 2011, presso Bulgari S.p.A. in Solonghello, organizzato da Federmanager Alessandria, si è tenuto il settimo Forum dei Direttori del Personale per un dibattito/confronto sul tema:

AZIENDE IN CAMBIAMENTO –
Formazione e patrimonializzazione delle esperienze.


Hanno partecipato quindici Direttori del Personale ed esperti di relazioni industriali, con alcune sopraggiunte assenze dovute ad improvvise esigenze aziendali.
L’incontro ha avuto come prologo il benvenuto del dr. Slanzi, HR Manager e della dr.ssa LaVia, Executive Director Sviluppo, Formazione e Selezione, entrambi di Bulgari Goielli S.p.A., che hanno evidenziato gli obiettivi dell’incontro presentando altresì la struttura societaria cui è seguita una visita dello stabilimento di Solonghello e della splendida location dello stesso.
Rientrati in aula, al dr. Bramardi è stato affidato l’incarico di introdurre il tema del Forum: ha preliminarmente evidenziato come la realtà imprenditoriale dei nostri giorni faccia ormai pensare che lo slogan “piccolo è bello” non sia più molto attuale; le aggregazioni tra Aziende sono ormai diventate all’ordine del giorno, se non addirittura le acquisizioni da parte di Imprese più grandi e, a volte, di Gruppi multinazionali.

Produzioni e modi di produrre sono mutati e ciò è dovuto in gran parte al fatto che le cosiddette produzioni semplici e/o di massa – salvo casi limitati e comunque posti in essere con sistemi produttivi altamente qualificati e tecnologicamente avanzati - sono diventate esclusiva di Paesi a basso costo lavoro e, se ancora da noi esistenti, svolte da personale immigrato e a bassa qualificazione.
In queste nuove realtà integrate si rendono pertanto necessarie politiche industriali tese ad assimilare le reciproche esperienze e le proprie metodologie, per cui la parte formativa rappresenta uno degli aspetti salienti.
L’esigenza di una sempre più elevata formazione è diventata un costante patrimonio culturale e gestionale delle nostre Imprese, senza peraltro dimenticare che una significativa tradizione formativa non è certo una novità del nostro mondo produttivo: basti pensare all’apprendistato, che sia pure tra alti e bassi, soprattutto per chi lo riteneva una forma di sfruttamento minorile, ha rappresentato una costante formativa che ha consentito a tanti giovani di diventare qualificati tecnici ovunque apprezzati.
La scuola – ha proseguito Bramardi – non ha molto aiutato, nè soprattutto lo fa oggi: gli Istituti professionali non sono molto apprezzati dai nostri giovani che preferiscono altri tipi di studio - che peraltro non assicurano altrettante possibilità occupazionali - ed inoltre non sempre usufruiscono di docenti tecnicamente all’altezza delle effettive esigenze aziendali; a questo proposito sarebbe opportuno, ove possibile, “imprestare” come esperti/docenti nostri tecnici che, oltre a mettere a disposizione le proprie conoscenze ed esperienze avrebbero anche la possibilità di conoscere e farsi conoscere dai ragazzi favorendo una selezione per eventuali, future assunzioni nella propria Azienda e creando uno spirito aziendalistico a chi questo mondo non conosce o ne ha una sensazione distorta. Rimane sempre opportuna comunque la pratica degli stage/tirocini, nell’ottica di una reciproca disponibilità ed attitudine sul campo.
La prima e più semplice attività di formazione è pur sempre quella dell’affiancamento ad operai e tecnici già qualificati ed esperti, ma la messa a punto di piani formativi che uniscano alla fase più elementare aspetti maggiormente scientifici, sul campo ed in aula, sarebbero da percorrere il più possibile: non sempre ciò è praticabile soprattutto nelle piccole e medie imprese ed in particolar modo quando l’esigenza primaria è la produzione per rispondere alle sempre più isteriche esigenze di mercato; c’è peraltro chi “ha approfittato” opportunamente della crisi e dei tempi liberi che si sono purtroppo creati per investire in pratiche formative.
Nell’ambito della formazione, inoltre, sarebbe opportuno anche trovare spazio per la cosiddetta “plurimansionalità”, utile per le aziende, ma anche per i collaboratori che in tale specializzazione possono trovare una maggiore garanzia per la loro occupazione.
Prescindere dalla formazione non è più possibile se si vuole essere in linea con le attuali esigenze ed essere pronti ad accettare le sfide che i mercati ci impongono e questo ad ogni livello, operaio, impiegatizio, quadri ed anche dirigenti.

Formazione ed esperienza- ritiene Bramardi – una volta acquisite diventano ovviamente patrimonio personale, ma ogni impresa dovrebbe operare attentamente affinché tale acquisizione diventi patrimonializzazione aziendale.
Un personale qualificato e specializzato, sia nella progettazione che nella produzione e nell’assistenza, concorre a determinare un prodotto di elevata qualità ed affidabilità. E’ una caratteristica che distingue l’azienda e che, unitamente ad altri indiscutibili aspetti, ne caratterizza l’eccellenza.
La fidelizzazione del personale - e del patrimonio che rappresenta – è un obiettivo a questo proposito da perseguire, favorendo idonee condizioni di lavoro, economiche ed ambientali, creando sintonia con quanto il collaboratore auspica, favorendo possibilità di crescita e prevedendo, per quanto possibile, prospettive di durata nel tempo.
Certe pratiche del passato – forse un po’ meno nel presente – che per semplicità definiamo mobilità e magari anche “furto” di personale specializzato – furono origine di tanti guai, anche in chi doveva istituzionalmente gestire al meglio questo fenomeno e soprattutto ad indiscutibile detrimento di chi – Azienda – lo aveva formato, spendendo tempo e denaro.

E qui – ha concluso Bramardi – si potrebbe porre un legittimo interrogativo: è giusto che un’Impresa non possa privarsi di un dipendente con cui è venuta meno la fiducia ed al contrario un collaboratore possa andarsene quando vuole e/o gli conviene?
Ma questo è un altro tema. Ne parleremo semmai un’altra volta. Rimaniamo pertanto in argomento e vediamo come si vive il cambiamento in Bulgari.

Il dr. Slanzi ha iniziato la sua testimonianza con una celebre citazione di Winston Churcill:

“Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare”

Questo motto ben si adatta alla realtà Bulgari, quando, alcuni anni or sono – ancora in presenza della società Crova – ci si rese conto che era indispensabile fare un passo in avanti.
La cultura artigianale che aveva caratterizzato la Crova e che ne aveva fatto una significativa realtà imprenditoriale, non appariva più sufficiente ad affrontare un difficile Settore quale stava diventando l’oreficeria e tra i vari scenari possibili che si presentavano si optò per una sempre più fattiva ed approfondita collaborazione con la società Bulgari, già notevole cliente , fino ad arrivare ad una vera e propria acquisizione avvenuta nel 2005.
Furono ovviamente necessari alcuni anni di adattamento passando attraverso varie fasi: dal compiacimento per quello che si era fatto e realizzato nella preesistente realtà ad un certo “rifiuto” per le novità che si venivano via via creando, al rinnovamento che impegnava fortemente tutte le componenti aziendali ed infine all’effettivo cambiamento.
In queste fasi è stata determinante la funzione del management, in quanto punto di contatto tra due culture e strumenti di comunicazione del cambiamento stesso, alimentando e veicolando il flusso di informazioni verso i collaboratori.
E’ stato – e lo è tuttora – importante esplicitare e chiarire il “vissuto del cambiamento”, da parte degli attori organizzativi perchè si potesse - e si possa – elaborare e condurre a quella qualità dei risultati e delle relazioni cui il Gruppo Bulgari tende.

Arricchire infatti la conoscenza delle persone consente di valorizzare il contributo di professionalità e di appartenenza che ciascuno porta all’Azienda.
Per realizzare ciò è evidente la necessità di consolidare il bagaglio di competenze manageriali delle figure professionali che per posizione organizzativa costituiscono lo snodo tra le scelte strategiche del top management e la realizzazione operativa del business.
Emerge pertanto una esigenza legata al ruolo del management, completezza delle comunicazioni organizzative e maggiore chiarezza del ruolo del Responsabile.
Il Responsabile di produzione dello stabilimento – ad esempio – porta in Azienda una visione manageriale di matrice industriale, basata su tecniche di gestione strutturate, che potrebbe essere spunto per l’arricchimento dell’attuale modello manageriale con nuovi strumenti e nuove logiche.
Alla luce di queste informazioni HR training e development determina l’avvio di un processo di sviluppo del ruolo manageriale, che coinvolge l’intero gruppo di manager in attività formative e on the job.
La finalità è quella di creare un sistema gestionale basato su logiche di efficacia ed efficienza, attraverso l’utilizzo di strumenti comuni e la condivisione di dati oggettivi.
Ha rappresentato una grande importanza – ha concluso il dr. Slanzi – che il cambiamento e la formazione ad esso connessa sia arrivata – ed arrivi – dal management e dalle componenti interne anziché da un Consulente esterno che, per quanto bravo ed esperto possa essere, non è certo a conoscenza dei risvolti più profondi esistenti in qualsivoglia e complessa realtà imprenditoriale.
Nell’ambito della tavola rotonda programmata nel Forum, il dr. Lancerotto, Direttore Risorse Umane di Michelin Italiana SpA ha sottolineato che nel suo Gruppo industriale il cambiamento è una costante aziendale, impegnato nella ricerca del massimo equilibrio tra i valori del Gruppo stesso che si possono sintetizzare nel rispetto dei clienti, degli uomini, dell’ambiente, degli azionisti, nei fatti e nelle azioni conseguenti.
Nel cambiamento grande attenzione viene rivolta al Personale, nella valorizzazione delle dimensioni dell’accompagnamento, nello sviluppo delle competenze, nell’attenzione alle retribuzioni ed ai benefit, nella messa a punto di servizi al personale, nella gestione delle carriere, nelle relazioni azienda/dipendente, nelle relazioni sociali, nelle assunzioni e nell’integrazione dei nuovi ingressi, nell’ambiente e nella qualità di vita lavorativa.
Sempre nell’ambito degli interventi è emerso il fatto – in controtendenza – che in Bulgari, nonostante la crisi, vi sia stato un incremento del personale, anziché un ridimensionamento. Ciò è stato possibile – ha sottolineato la dr.ssa LaVia – tramite attività di formazione e sviluppo concentrandosi su particolari aree e “famiglie professionali”, quali “vendita”, “sviluppo delle persone”, “valutazione del personale”, “utilizzo di fondi” ad hoc. E’ peraltro da sottolineare che per oltre il 60% l’occupazione nel Gruppo è rappresentato da personale femminile.
E’ stato ancora evidenziato nel corso del Forum che anche la mobilità, per quanto amara e difficile da gestire, è una forma di cambiamento, senza dimenticare che a volte – anche se può ai profani sembrare un controsenso – da una parte si licenzia e dall’altra si assume, avvalorando l’esigenza di pensare e programmare la sostituzione di personale che se ne andrà.
Il cambiamento peraltro- è stato sottolineato – non riguarda solo le aziende, ma dovrebbe essere ben presente anche nelle persone: a titolo di esempio si è ricordato che un ingegnere, nelle mutate e mutabili situazioni attuali, non può pensare di fare sempre e soltanto l’ingegnere.
Importante nel cambiamento – ha ancora sottolineato Bulgari – soprattutto nel passaggio da una media azienda ad un grande Gruppo è che il personale abbia un forte sentimento di appartenenza all’azienda stessa ed una forte fiducia nel management, il tutto avvalorato da una significativa chiarezza iniziale e soprattutto all’arrivo con la realizzazione del programma.




La condivisione degli obiettivi, all’inizio e in corso d’opera, favorisce il cambiamento virtuoso e nelle esperienze dei partecipanti al Forum si sono manifestate nei dipendenti ben poche defezioni sia collaborative che fisiche.
E anche quando il cambiamento sembra epocale – come avvenuto in una primaria azienda alessandrina – quando un certo numero di impiegati vennero “riciclati” in operai e utilizzati in produzione, la condivisione ed il successivo superamento dell’emergenza dimostrarono che nell’industria moderna e globalizzata non possono esistere tabù insormontabili.