sabato 21 gennaio 2012

Uscire dalla crisi: "La necessità assoluta di crescere"

Tommaso Nannicini
È Assistant Professor presso l’Università Bocconi di Milano, dove insegna Economia del Lavoro ed Econometria

Nel suo libro “Non ci resta che crescere” Editore Università Bocconi, affronta il tema economico di maggiore attualità del momento

“Per aggredire in profondità le cause del «dolce declino» dell'Italia, senza illudersi di poter continuare a scaricare i costi dell’aggiustamento sulle giovani generazioni, i contributi che seguono propongono ricette che ruotano intorno a una parola chiave: «selezione».
Dobbiamo selezionare le risorse economiche e sociali, aprendo molti mercati e professioni oggi protette alla concorrenza, affinché le risorse disponibili vadano laddove sono più produttive.
Dobbiamo selezionare le politiche pubbliche, perché se vogliamo aiutare chi resterà indietro, non possiamo permetterci di dare tutto a tutti.
Per dirla con una metafora, l’Italia ha bisogno di una grande opera di potatura.
.Dobbiamo potare qualche ramo della pianta per far sì che possa produrre più frutti. E non si tratta solo di tagliare rami secchi; purtroppo è un po’ più complicato: con la potatura, si devono tagliare anche i rami che hanno scelto di crescere verso l’interno. Lo si deve fare per lasciare spazio a quelli che crescono verso l’esterno, perché solo quelli servono alla pianta per fruttificare. E questo, fuor di metafora, in termini economici e sociali, è facile a dirsi ma difficile a farsi. È difficile perché si tratta di tagliare rami vivi, non secchi, parti del tessuto economico e sociale che hanno una loro capacità di sopravvivenza. Perché laddove noi vediamo delle rendite, qualcuno vede un diritto acquisito, un modo dignitoso per sbarcare il lunario. Non c’è niente di moralistico in questo. Anche a me piacciono le rendite: le mie. E la selezione, la meritocrazia, hanno dei costi, anche psicologici. Una cosa è fallire perché ci sono le raccomandazioni degli altri, le rendite degli altri, gli abusi di potere degli altri. Altra cosa se il fallimento avviene in un ambiente competitivo, dove la colpa finisce per ricadere sui miei limiti.
Come diceva George Orwell, «il problema della concorrenza è che qualcuno vince».
Tuttavia, quest’opera di potatura e selezione, per quanto costosa, è ormai indispensabile, perché i costi dell’assenza di dinamismo sono maggiori e cominciano a farsi insopportabili. Non esistono alternative se vogliamo valorizzare le risorse umane e materiali del nostro paese per tornare a crescere.
Insomma: la potatura non deve consistere in una crociata ideologica contro le rendite, ma in una politica capace di offrire una visione d’insieme. Se la politica ha una visione e indica un obiettivo raggiungibile (la crescita della pianta), anche qualche sacrificio (la potatura di qualche ramo) può essere accettabile. Altrimenti, senza visione, senza progetto, ognuno si rinchiude nella difesa del proprio ramoscello, nelle barricate corporative che hanno bloccato le riforme negli ultimi vent’anni. È proprio questo lo sforzo di questo libro: offrire una visione unitaria degli interventi che servono al paese, e individuare gli ostacoli politici che si sono finora frapposti alla loro realizzazione. Due gli ostacoli principali: ritardi culturali e difese corporative.”

Restando all’interno della metafora potremmo affermare che proprio in questo periodo invernale si possono effettuare le potature più efficaci per ottenere nella oramai prossima stagione primaverile, la migliore vegetazione e sviluppo del nostro albero immaginario. Infatti, come la natura prevede, saranno proprio i giovani rametti a fiorire ed produrre i migliori frutti. La minore influenza degli interessi partitici sulle decisioni del Governo, ferma restandone la costruttiva collaborazione politica, sembra essere la condizione di equilibrio per tagliare alcuni interessi dominanti, quindi rami che, pur vigorosi, produrrebbero solo foglie.
In termini “agricoli” essi si chiamano “succhioni” perché tolgono linfa alla pianta senza produrre niente oltre le foglie, quindi non fiori e frutti. Il parallelismo è forte con l’aspetto economico. Però, se si avvererà la previsione che calcola come pari al 10% del PIL la liberalizzazione di tutti questi servizi (Quindi anche trasporti ferroviari e pubblici, energia elettrica, gas) avremmo realizzato quelle riforme che dopo essere state la bandiera “parlata” dei Governi di destra e di sinistra, sono servite solo per le campagne elettorali e per la bagarre dialettica, sono state riposte nei cassetti partitici.
Si diceva prima: la primavera che porta il cambiamento. Speriamo davvero che si abbia il buon senso politico di non fa riaffiorare interessi di partito se non nei limiti della democratica diversità, quindi di confronto.
La riserva è d’obbligo perché in quella stagione avremo elezioni amministrative comunali un po’ ovunque ed alcuni partiti (vedi Lega Nord, Italia dei Valori, Movimento Grillo, SEL & C.) fremono per conquistare spazi elettorali guardando le proiezioni demoscopiche.
Altra scommessa aperta è quella del taglio dei costi della politica e della spesa pubblica. Indispensabile realizzarlo mantenendo un equilibrio sociale ed economico, primavera araba docet!

domenica 15 gennaio 2012

Uscire dalla crisi: non solo liberalizzazioni ma anche Manager capaci di innovarsi e Sindacati illuminati

Dalle indagini svolte sui territori italiani, emerge una triplice debolezza delle classi dirigenti locali.
La prima è quella di una risposta alla crisi non sempre adeguata, spesso confusa e in ordine sparso.
La seconda è un’eccessiva auto referenzialità locale, nonché una riconosciuta difficoltà, più volte ricordata, di praticare la cooperazione tra segmenti diversi di classe dirigente per i comuni obiettivi del territorio.
La terza è che non si persegue con chiarezza e con l’impegno necessario l’obbligo primario della classe dirigente, quello di generare nuova classe dirigente, con il corollario della ben nota riluttanza a promuovere effettivamente i giovani talenti presenti sul territorio.

Ma oltre i limiti e le debolezze, i territori italiani conservano grandi patrimoni di risorse:
- Primo, una capacità di reazione alla crisi da parte del tessuto imprenditoriale, che ha dimostrato concretezza e tenacia, pur attraversando talvolta situazioni anche molto difficili non solo a causa della “nebbia cognitiva” di cui sopra, ma anche dell’incapacità sistemica di sviluppare sul territorio i modelli di coordinamento più adeguati.
- Secondo, il valore della produzione locale rispetto alla rendita, che ha costituito almeno fino al 2010 un elemento di tenuta della ricchezza delle famiglie e delle imprese, nonché dell’occupazione, in molti contesti locali.
- Terzo, la capacità di resistenza del tessuto sociale, con comunità abituate ad “assorbire” le difficoltà e con un livello di coesione che diventa a tutti gli effetti una risorsa competitiva del sistema.

Incrociando i dati delle regioni italiane su dotazione di infrastrutture ICT, lavoro specializzato e performance produttiva, emerge chiaramente come uno dei problemi principali a livello territoriale sia la carenza di lavoro specializzato. Una buona dotazione di capitale umano è un requisito-chiave per utilizzare le nuove tecnologie in modo adeguato, specie nelle regioni maggiormente dotate di infrastrutture informatiche, che sono poi quelle in cui si è registrato il maggior rallentamento nella crescita nel periodo 2005-2009.
Per ricominciare a crescere l’economia italiana ha bisogno di una classe dirigente decisa a compiere uno sforzo evolutivo, che si impegni cioè a sostenere le imprese ed i lavoratori per stare al passo con le altre economie avanzate anche attraverso efficaci programmi di supporto alla creazione di conoscenza, il capitale intangibile per eccellenza.
I dati recenti sul calo delle iscrizioni universitarie devono costituire un campanello d’allarme cui reagire subito, per invertire una tendenza che pregiudicherebbe il futuro del Paese.

La migliore qualità della finanza privata italiana – spesso evocata per esorcizzare l’elevato debito pubblico – e l’orientamento relativo della nostra economia verso il “reale”, non riescono a congiungersi in una dinamica virtuosa che rafforzi e stimoli le imprese, allargando i loro orizzonti. Gli estesi patrimoni privati sono un “mixed blessing”, una medaglia dalle due facce, da una parte fungono da ammortizzatore economico e sociale, ma dall’altra sono un incentivo a privilegiare la rendita rispetto al rischio dell’innovazione, la conservazione rispetto alla mobilità.
Di debito si può morire (Grecia e Irlanda docent), ma di patrimonio si può languire. Occorre mobilizzare quei patrimoni, con nuove forme di finanza che prevedano rischi e vantaggi esplicitamente partecipati e suddivisi tra imprese, banche, grandi investitori e famiglie. Occorre più finanza per lo sviluppo, senza le distorsione del sistema pubblico, con manager cosmopoliti, ma al tempo stesso esperti delle potenzialità produttive italiane.

Per quanto concerne lo sviluppo economico, da cui quello sociale non può prescindere, e pur con le debite differenze tra i territori, è ormai insostenibile la frattura tra un Paese dove si risponde solo delle procedure formali, sostanzialmente chiuso verso l’esterno se non per i richiami e gli obblighi che l’Unione Europa ci impone, solo marginalmente toccato dalla concorrenza; ed un Paese dove si risponde dei risultati, aperto verso l’estero e sottoposto alla pressione della concorrenza internazionale. Oltre alle richieste di sempre, più controlli efficaci e non formalistici, meno carte da presentare e tempi certi per le risposte, dalla giustizia civile, ai pagamenti, alla concessione di autorizzazioni e permessi, un contributo all’efficienza della Pubblica Amministrazione potrebbe aversi da una maggiore mobilità (anche limitata localmente, ma estesa a amministrazioni di natura diversa – centrale/locale). Ogni mutamento che favorisca la crescita dimensionale delle imprese, ogni decisione che consenta l’attrazione di investimenti dall’estero o limiti la fuga di nostre imprese e capitali va presa presto.

Fin qui il rapporto di AMC : “Generare Classe Dirigente 2011” che si era posta l’obiettivo di analizzare la situazione nell’ottica dei ruoli manageriali (Imprenditori e Dirigenti), ma lo sviluppo di una qualsiasi attività economica si basa anche in modo determinante su un’altra importante risorsa: il capitale umano.
Da anni ci riempiamo la bocca con la parola “formazione” ed è innegabile il suo ruolo che inizia con la scuola per finire nel processo della formazione continua aziendale passando attraverso l’apprendistato.
Si rileva nel rapporto come manchi personale specializzato. Ma come può sorgerne se non nell’oculato e preveggente investimento di alcune aziende? Infatti la scuola ha man mano perso la propria capacità di licenziare diplomati e laureati con un bagaglio formativo adeguato alle necessità del mercato prendendo una strada propria di presunte specializzazioni che hanno giustificato solo uno sviluppo crescente di cattedre.
Le conoscenze acquisite dagli studenti in ambito universitario sono generalmente proporzionali più all’impegno individuale degli stessi o di alcuni illuminati docenti piuttosto che al “Sistema universitario”.
Saltato il fosso che separa il mondo scolastico da quello aziendale, si aprono le porte dell’apprendistato o del lavoro a termine.
Peccato che il primo non sia altro che un business per le “mille società di formazione” che vivono sui finanziamenti pubblici erogando “il nulla” agli apprendisti. Corsi inutili dove persone di ogni provenienza aziendale diversa, quindi assolutamente eterogenea, perdono il loro tempo ad ascoltare lezioni generiche e spesso inutili per la loro formazione. Pagato questo assurdo prezzo, loro che non hanno imparato niente e le aziende dove non sono stati presenti, si riprende il loro quotidiano impegno nel lavoro senza averne tratto alcun valore aggiunto. Chi non ha avuto modo di seguire questa strada si trova a sottoscrivere un contratto a termine (da un mese a sei, fino a un anno) che, per la legge, non potrebbe essere rinnovato più di due volte nello stesso ruolo. Potrebbe, appunto, ma le deroghe sono infinite come gli escamotage. Infatti la sostanza non viene rispettata e nessuno la fa rispettare.
Qui entrano in gioco sia i vari Uffici della Direzione Provinciale del Lavoro (Ministero del Lavoro) sia i Sindacati, o meglio in genere non entrano. Sappiamo che da sempre gli Enti Pubblici non funzionano come dovrebbero e magari per mille motivi, ma vediamo che anche il Sindacato (meglio: i Sindacati nelle loro svariate vesti e sigle) è rimasto quello degli anni ‘60 in cui fu fondato. Allora raccoglieva tessere per avere la necessaria forza e controbattere un padronato che agiva liberamente senza controllo, adesso continua a ricercare tessere per mantenere la propria struttura con le stesse regole di un partito politico.
Ma il mondo è cambiato, il modo di lavorare pure, gli strumenti e le esigenze evoluti. Fino a venti anni fa forse pensavamo di esportare in tutto il mondo il nostro modello sociale e industriale, quello cioè elaborato dopo aver risentito dell’influsso degli USA. Oggi il dubbio su tutto ciò, dovrebbe pervadere le menti datoriali e sindacal,i perché alcuni miliardi di persone con approcci nuovi, con sistemi deregolamentati e comportamenti sociali dove il diritto acquisito è una parola sconosciuta, stanno emergendo a nostre spese.
Stiamo perdendo una battaglia? Forse no, ma certamente stiamo perdendo tempo per mancanza di realismo e di visione futura. Abbiamo sbagliato a perseguire gli obiettivi di benessere? Forse no, ma di fatto abbiamo vissuto al di sopra delle nostre reali possibilità. Qualcuno tempo addietro se ne era accorto ed aveva fatto alcune mosse che per noi sono fantascienza. Sindacati che in USA hanno investito nelle aziende per partecipare responsabilmente alla gestione, sindacati che in Germania hanno accettato la riduzione degli stipendi e degli orari di lavoro per aumentare la competitività dell’azienda e ridurre la disoccupazione.
Noi invece abbiamo proseguito imperterriti a difesa dell’acquisito, come se il guadagno venisse dal cielo, come la manna, e non fosse il risultato della produttività. Ora saremo costretti a cambiare tutti per salvare il salvabile e dare un futuro al nostro Paese ed ai nostri figli.

sabato 7 gennaio 2012

Essere manager nella crisi

Qualche giorno fa mi è capitato di parlare con un imprenditore vicino al passaggio della successione in azienda. Al momento, quindi, di godersi i risultati della propria fatica.
In pochi secondi, mi ha spiegato la sua strategia di decision making:
Vede, mi ha detto, io non sono un genio.
Per questo ho sempre dovuto decidere prima di capire.
Perché se avessi aspettato di capire prima di decidere, probabilmente altri prima di me avrebbero capito e mi avrebbero anticipato nella decisione.
E per altri intendeva sia i concorrenti che i collaboratori.
Quindi, secondo questo imprenditore, un leader deve assumersi il rischio di decidere sulla base di una comprensione limitata, per mantenere leadership e credibilità.
.Credo che ogni imprenditore si comporti in questo modo.
Certo, la frase “decidere prima di capire” è una iperbole, ma essere imprenditori o anche manager significa prendere decisioni con informazioni limitate…a volte addirittura in assenza di informazioni.
E’ parte del gioco. Alcune aziende oggi sono in difficoltà anche perché tecnologia ed internazionalizzazione sono così distanti dall’imprenditore (verosimilmente anziano) da impedirgli di prendere decisioni corrette in ambiti di cui conosce davvero poco le logiche di insieme.
Per questo il passaggio generazionale funziona quando padre e figlio crescono insieme contaminandosi.

“Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare” [Einaudi,'59]
Non metto in discussione la componente di “viscera” delle decisioni dell’imprenditore (intuizione, coraggio, vision). Credo che le decisioni strategiche debbano essere prese ANCHE con il conforto dei numeri: business plan, ritorni dell’investimento, sistemi di reporting, etc.
Nella sua chiusa finale: “assumersi il rischio di decidere sulla base di una comprensione limitata”
dunque una sintesi potrebbe essere “decidere pensando”, magari non troppo..

Quando c’è l’expertise, le decisioni sono prese in un lampo, perché si ha la consapevolezza inconscia. Business plan e numeri sono importanti, ma non vorrei che venissero assunti come base (e quindi in ultima istanza anche giustificazione) per le decisioni che non sorgono fuori spontanee.

Egli pose l’accento su un difetto molto comune fra i manager italiani, ovvero quello di non dare importanza ai rapporti interpersonali, alle relazioni sociali, a costruirsi un network di conoscenze perché troppo focalizzati sul lavoro, network che invece diventa indispensabile quando si deve cercare un nuovo lavoro.

Vorrei riportarvi i risultati di un’indagine forse un pò datata (luglio 2005) ma in sostanza sempre attuale.
E’ apparsa su Business Week in un articolo dal titolo “Why the boss really had to say goodbye”.

Alla domanda: “perché hai perso il lavoro?” 1087 dirigenti hanno risposto così.
il 31% non ha saputo gestire il cambiamento,
il 28% ha ignorato il “cliente”,
il 27% non ha migliorato le performance
il 23% ha negato o rifiutato di riconoscere la realtà emergente.
Da queste risposte si può già trarre qualche insegnamento utile, tra cui c’è sicuramente quello già citato da chi mi ha preceduto, ovvero curare le relazioni.
Devo dire che i dati di Business Week sono sicuramente interessanti, ma che dire delle ristrutturazioni, delle fusioni e degli altri motivi che talvolta hanno poco a che vedere con la professionalità e la capacità del manager stesso ?
Sposo in pieno la tesi di Caradonna, sopratutto quando dice che i manager sono “troppo focalizzati sul lavoro”: è proprio vero, il vortice delle attività ci assorbe così tanto che spesso perdiamo di vista opportunità e amicizie.Anche se credo che questa difficile situazione economica stia modificando in meglio qualche cattiva abitudine che si stava consolidando, e che nei prossimi mesi riusciremo a lavorare con un pizzico di sereno distacco in più, in un mercato difficile ma di cui dobbiamo costruire la ripresa. In altre parole, abbiamo l’obbligo di pensare positivo dopo aver preso atto dei cambiamenti di mercato e aver capito che dobbiamo reagire a questa nuova realtà e non piangerci addosso.
“Paura Liquida” anche nel management? Penso proprio che il pensiero del sociologo Zygmunt Bauman si possa ritenere estremamente attuale anche per la realtà manageriale e imprenditoriale, se vediamo i dati dei licenziamenti e di disoccupazione crescente che si leggono tutti i giorni sui media.
Per Bauman “Paura è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla”.
Come liberarsi della paura? Forse la ricetta è un giusto mix tra “Network personale” e “Competenze personali”, entrambi da coltivare e implementare giorno per giorno. Attraverso formazione e momenti di aggregazione sociale, ovvero occasioni per ampliare i propri orizzonti.
In merito al proprio network di contatti, personalmente sono propenso ad un “Brick & Click” delle relazioni, ricercando la multicanalità anche nei rapporti che contano. Quindi sia attraverso i social network (linkedin, facebook, myspace, viadeo, twitter, ecc.), blog personalizzati, sms; sia attraverso il biglietto di auguri, personalizzato, rigorosamente scritto a mano con una bella penna stilografica, sia partecipando in modo attivo ad incontri, associazioni culturali, a conferenze e dibattiti.
Mai più di adesso si sente il bisogno di comunicare e condividere situazioni ed esperienze nella ricerca di professionalizzarsi sempre più, ma dovendo fare i conti con una limitata disponibilità di tempo. Formarsi rapidamente e proseguire in questo cammino irreversibile carpendo ad ognuno una esperienza, un’idea, una testimonianza, queste sono le armi da utilizzare per essere il più possibile “in time” con una realtà in movimento frenetico a cui dobbiamo restare agganciati.
Ogni situazione, anche negativa, ci offre un’opportunità che dobbiamo saper cogliere!
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martedì 3 gennaio 2012

"Licenziare gli statali? Dovremo porci il problema"

La riforma del mercato del lavoro "ha senso se serve a migliorare le prospettive di occupazione delle persone, la competitività delle imprese e la crescita dell'economia", ha detto il direttore generale di Confindustria a 'Omnibus', aggiungendo che sull'articolo 18 non c'è "nessuna guerra di religione"

La ricetta di Confindustria non cambia: con questa pressione fiscale da record, di altre tasse non se ne parla. Non restano che i tagli alla spesa pubblica. E tra questi, almeno secondo il direttore generale Giampaolo Galli, bisognerebbe anche ragionare sul licenziamento dei dipendenti statali, come in Grecia.
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Ospite de La 7, Galli, rispondendo a una domanda sulla possibilità di licenziare i dipendenti pubblici ha detto che "a un certo punto dovremmo porci anche questa prospettiva qui".

Basta guerre di religione sull'art.18
La riforma del mercato del lavoro "ha senso se serve a migliorare le prospettive di occupazione delle persone, la competitività delle imprese e la crescita dell'economia", ha detto il direttore generale di Confindustria a 'Omnibus', aggiungendo che sull'articolo 18 non c'è "nessuna guerra di religione".

Crisi profonda
Galli ha sottolineato che ci sono situazioni di "disagio sociali anche molti forti", ma che nascono non tanto dalla manovra del Governo Monti. Piuttosto dal fatto che questa è una "lunga crisi".

Sacrifici in tempi stretti
Ora l'Italia sta facendo un "aggiustamento" della finanza pubblica. "Purtroppo - ha detto il direttore generale di Confindustria - lo dobbiamo fare nel giro di pochi anni. Questo comporta dei sacrifici, dei costi".
Altrimenti si chiude
Secondo Galli "la manovra non è così pesante" e i consumatori tendono a "esagerare i numeri dei rincari, ma è indubbio che colgono un aspetto reale. La sommatoria delle manovre un costo per le persone ce l'hanno. Ma bisogna chiedersi quale era l'alternativa. Sarebbe stato un disastro dal punto di vista dei posti di lavoro e dei redditi, della possibilità di occupazione per giovani e non e la chiusura di imprese".

Fin qui la chiara presa di posizione di chi ha una visione soggettiva (di parte) della situazione europea, più che italiana, in un contesto economico dove le aziende produttrici costituiscono l’ossatura principale del nostro sistema economico. In effetti la riforma del mercato del lavoro si impone per riportare la nostra competitività a livelli tali da far crescere l’occupazione ed avviare a soluzione la ripresa dei consumi. Ovviamente essa non può prescindere o non dovrebbe, dal tipo di contratto di lavoro se pubblico o privato. Il criterio dell’efficienza è, o deve divenire, una regola su cui misurare le prestazioni per tutti coloro che lavorano, quindi industria, commercio, servizi e istituzioni pubbliche locali o centrali. Nella crescita e non nello spreco si fonda il nostro futuro e soprattutto quello dei nostri figli. La bandiera dell’art. 18, come istituto da difendere ad ogni costo, ha un grande significato politico che viene sventolato da un sindacato per attenuare ogni riforme strutturale nell’ottica del mantenimento dello status quo che fa comodo a moltissimi. Come negare che si stia meglio in una condizione di privilegio piuttosto che di incertezza! Come negare che abbiamo costruito un sistema di garanzie attorno ai lavoratori pubblici, al sistema sanitario ed agli enti inutili per favorire così una rete di collocazioni elettorali! Come negare la facilità di impiego o di indirizzo verso l’impiego “sicuro” facendo “l’occhietto” a questo o quel politico! Come negare di aver indirizzato i giovani verso l’impiego in Ferrovia, nelle Poste, nella Scuola, in Banca, in Comune, in Provincia, in Regione, in RAI e via dicendo, piuttosto che stimolarne la voglia di mettersi in gioco con l’impegno nello studio e nel cercare di affermarsi per i propri meriti! E’ stato così costruito un sistema che forse non potevamo permetterci e che se da un lato ha assicurato guadagni a moltissime persone, dall’altro ha mostrato il fianco alla legge non scritta dell’equo rapporto tra il guadagno e la produttività. Naturalmente ciò non si è rivelato oggi, nel bel mezzo della crisi, ma è stato tenuto “nascosto” preferendo aumentare il debito pubblico piuttosto che intervenire con un costo politico che nessuno ha voluto pagare facendo la politica dello struzzo.
A ribadire questi concetti c’è sempre stata la Confindustria ma anche lei ne è stata partecipe quando, negli anni della crescita, cedeva alle richieste sindacali monetizzando tutto, tagliando l’orario di lavoro, concedendo premi falsamente legati all’incremento della produttività e tollerando comportamenti antieconomici dei propri dipendenti. Non dimentichiamo anche: sfruttando finanziamenti pubblici incontrollati (come la Cassa del Mezzogiorno), sovvenzioni per mancati guadagni (vedi FIAT) con casse integrazioni speciali di anni per migliaia di lavoratori, emigrazioni dal sud Italia per avere lavoro a basso costo, ecc.
Ora la crisi impone di “fare un passo indietro” ma non intervenendo su uno dei fattori, ad esempio la riforma del lavoro, senza dare una nuova connotazione al sistema economico italiano. E’ del tutto evidente che in una azione complessiva (lavoro, tasse, sostegno al reddito, scuola, enti pubblici, Stato, politica) sia molto più facile scontentare tutti che favorirne qualcuno, ma proprio qui sta la chiave della soluzione. Occorre fare in modo che tutti siano almeno un po’ scontenti, perché questo vorrà dire che si sta effettivamente cambiando registro. Impresa facile? Sicuramente no, come nella pratica potremmo definirla impossibile. Infatti i poteri forti del sistema attuale (Confindustria, sindacati, banche, giudici, professionisti e partiti) faranno la massima resistenza a tutelare il loro interesse e con questo a prorogare nel tempo la crisi a danno del cittadino comune. Questo non può stupire nessun benpensante che pragmaticamente analizzi ciò che sia fattibile dall’utopia.
Ma senza fare drammi e ripercorrendo la storia, vediamo come il cittadino qualunque abbia sempre pagato il prezzo maggiore in rapporto ai benefici o disponibilità economiche. Nessuno ha mai trovato l’equilibrio ottimale se non per brevissimi periodi. A questo aggiungerei la nostra indole di italiani sempre pronti al compromesso ed a considerare le nostre scelte individuali come giustificazione al mancato rispetto delle regole comuni. Siamo fatti così, con il cuore in una mano ed il portafoglio nell’altra!



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