mercoledì 6 ottobre 2010

Decreto Legge 231/2001 e la Responsabilità del Dirigente d’Azienda


Su questo importante tema che coinvolge tutte le aziende italiane e di conseguenza i loro top manager, imprenditori e dirigenti, si sono svolti alcuni incontri ad Asti. L’iniziativa rientra nei programmi formativi promossi da Confindustria e da Federmanager di AL, AT e CN con il contributo di Fondirigenti. La realizzazione di tutti i corsi è stata affidata a Per.form S.c.a.r.l. che opera in ambito Unione Industriale AT. L’ottima regia del suo direttore, la dr.ssa Claudia Ferraro, ha fatto si che attorno a questo intenso programma si sia polarizzato l’interesse di numerosi dirigenti delle aziende operanti nelle province su indicate.
Non è stato sorprendente scoprire quanto sia complessa la materia su cui insiste questa legge che con i suoi risvolti di responsabilità penale tende a preoccupare i diversi responsabili.
Gli aspetti legali, penali e civili, con quelli di organizzazione degli adempimenti preventivi sono stati efficacemente presentati dall’ avv, Bortolotto e dall’ing. Roggero davanti ad uditori moto attenti ed interroganti.
Lo scopo di questa formazione si limitava a sensibilizzare i partecipanti rimandando a specifici interventi sul campo la trattazione delle problematiche di ciascuna azienda. In effetti il legislatore ha prodotto numerose ed articolate leggi in materia di sicurezza a 360° ma i diversi approcci e scopi di ciascuna di esse hanno poi finito per incrociarsi rendendone difficile la comprensione e particolarmente in termini di corretta applicazione formale e sostanziale. Come oramai siamo abituati a vedere, spesso il legislatore non prende in considerazione quale sia la struttura delle società destinatarie dei provvedimenti e così tende a penalizzare le micro-piccole aziende che in termini numerici sono oltre il 93% del totale in Italia. A questo si aggiunga quanto siano diversi i comportamenti degli enti di controllo che oscillano tra ignorarne completamente l’esistenza e applicarne in modo vessativo gli articoli e magari interpretandone soggettivamente il senso.
Ovviamente non è difficile condividere gli obiettivi delle norme ma troppo spesso, e il D.L.231 è tra questi, si tratta di aggiungere costi ai costi senza che ciò produca un ritorno inducendo così le aziende a sostenerli. Lo Stato è da una parte e il mondo produttivo dall’altra. La crisi c’è, la competitività cala, i disoccupati aumentano, il lavoro nero dilaga sotto il peso delle necessità primarie e degli oneri fiscali ma si continua con indefessa volontà a burocratizzare.

Mercato del lavoro e prospettive

Un’intervista ad Adriano Teso del 26 luglio 2010
- Con Adriano Teso, imprenditore, sottosegretario al Lavoro del primo governo Berlusconi e socio di Libertiamo, è sempre interessante discutere di economia e di politica economica. Il suo ‘polso’ da industriale e la sua impostazione squisitamente liberale ne fanno un giudice severo – e a volte impietoso – della realtà italiana.
Ed è inevitabile che con lui il discorso scivoli subito sulla vicenda più calda e simbolica degli ultimi giorni, l’annuncio dell’apertura di un importante stabilimento di produzione della Fiat in Serbia: “Le produzioni e il lavoro – riflette Teso – insomma la produzione di ricchezza, non possono che andare laddove il sistema locale, cioè l’insieme di logistica, pressione fiscale, quantità ore di lavoro e ambiente normativo, consente i maggiori guadagni di competitività”.
.Ed il problema quindi “non è quello di contrastare le delocalizzazioni, ma rendere competitivi i paesi che, per varie ragioni, non lo sono più. Qualsiasi impresa per sopravvivere e produrre ricchezza va dove il contesto gli permette di competere e di affermarsi. Il gruppo Fiat l’ha detto chiaramente: a queste condizioni non ci sono chance per la Fabbrica Italia…”.
E’ la solita questione del costo del lavoro? “No, o almeno non è l’elemento cardine. Se è vero che nelle tasche dei collaboratori resta circa il 40 per cento di quanto lo specifico posto di lavoro è costato all’imprenditore, una pressione sconosciuta alla gran parte delle società europee, è altrettanto vero che il costo del lavoro sia solo uno – e non necessariamente il più importante – dei problemi. Le faccio un esempio: da Milano è spesso più conveniente spedire le merci nel mondo dal porto di Amburgo anziché da quello di Genova… le pare normale?”
Crede che la vicenda di Pomigliano sia stata determinante per lo ‘strappo’ di Marchionne? “Difficile affermare il contrario, c’è una parte del sindacato e dell’opinione pubblica che si ostina a non riconoscere l’inevitabilità di alcuni sacrifici, i diritti di qualche decennio fa sono diventati privilegi ed in quanto tali non sono più tollerabili”.
E la politica? E il centrodestra, in particolare? “La sensazione è che, partendo e da un programma liberale – comunque confermato anche nell’ultima campagna elettorale e capace di stimolare una porzione importante di elettorato – il PdL al governo non riesca ad evitare che alcuni propri ministri vengano attratti dalle istanze politico-corporative di questo o quel gruppo d’interesse. Per fare un esempio, pensiamo al tentativo di riformare le libere professioni irrobustendo il potere degli Ordini! Anche sulla pubblica amministrazione, ci sono stati timidi passi in avanti, non sufficienti: bene il blocco degli aumenti retributivi, in un settore che ha visto i salari crescere ben oltre la produttività nell’ultimo decennio, ma mi piacerebbe vedere un serio piano di aumento della produttività e dell’orario di lavoro dei pubblici dipendenti, come avvenuto in Germania”.
Rispetto ad un tema che gli sta particolarmente a cuore, come il mercato del lavoro, Teso mostra sconforto: “Non vedo praticamente passi in avanti. Anziché riformare nel profondo il diritto del lavoro ed il welfare, si sventola la bandierina della partecipazione azionaria dei dipendenti, un istituto che è parente stretto della cogestione…”.
Ed il sistema bancario? “Il sistema bancario italiano è sempre stato prudente, quantomeno nella gestione ordinaria Leggere i bilanci delle banche non è mai facile, ho la sensazione che le banche italiane siano state più virtuose di molte concorrenti straniere. Ma se il sistema bancario ha finora tenuto, sono i rischi del sistema Italia a preoccupare. Molte banche hanno un massiccio carico di crediti, soprattutto rispetto alle banche italiane: un fenomeno intenso di fallimento le danneggerebbe. Ma resto ottimista: subiranno qualche perdita, ma sono convinto che il sistema reggerà, anche se la scarsità di impieghi redditizi si farà sentire”. Insomma, “in un paese in cui è sempre più difficile fare impresa e produrre innovazione, il rischio del settore finanziario è quasi quello di non sapere dove investire i risparmi”.
Concludiamo con una domanda avulsa (ma non proprio) dalla discussione: cosa serve per fare impresa? “Certamente creatività, tolleranza, libertà… ma considero fondamentali il rigore e la responsabilità personale. Vede, il capitalismo è morto, la gran parte delle imprese di successo non nasce dal capitale, ma dalle idee, dalla scommessa, dal rigore del lavoro…” E visto che “la cultura imprenditoriale risente della cultura più diffusa”, aver avuto il più grande partito comunista ha sicuramente influenzato la cultura del paese e corrotto il senso di responsabilità individuale.
Per Teso “troppo spesso, anche l’imprenditore italiano è figlio della cultura del “qualcuno ci deve pensare”.
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Crisi occupazionale

Ormai dal Settembre 2008 l'Italia non ha una piena occupazione. Abbiamo importato milioni di stranieri, offrendo loro incarichi in tutte le regioni. Ma con la crisi, il numero di disoccupati è in continuo aumento. E non sono più persone che non cercano un qualsiasi impiego legale per mantenersi, ma ambiscono ad un lavoro desiderato, in grado di appagare le proprie ambizioni personali. Sono persone che non trovano più un qualsiasi lavoro.
.La competizione mondiale sta dimostrando che la produzione del nostro Paese (ma anche quelle di Francia e Germania) non sono competitive e ciò porta a non avere lavoro sufficiente per tutti. E tutto questo non accade perché le imprese non hanno produttività orarie o qualità di prodotti sufficienti, ma perché su loro grava la improduttività del sistema Italia.
E a queste cose non possono che porre rimedio gli italiani tutti, acquisendo una miglior cultura economica, produttiva ed etica, e la politica, cui spetta mettere mano a profonde riforme strutturali e a nulla servono occupazioni di aziende in chiusura, scioperi e quant'altro.
Ma ricordiamo che un rapporto di lavoro non può essere costruttivo o produttivo in forza d’obblighi di legge ma, è basato sulla collaborazione.
Ogni giorno il "mercato" (in pratica ognuno di noi quando diventa cliente) giudica e vota i risultati di questa partecipazione, acquistandone o no prodotti e servizi.
L’imprenditore non può che esserne il massimo responsabile, giacché decide in che modo e con chi ottenere gli esiti vincenti.
Se questi non premiasse la collaborazione di chi aiuta l’azienda ad ottenere risultati positivi, sarebbe un cattivo imprenditore e diventerebbe la prima vittima di un tale miope comportamento.
Un buon industriale deve provvedere a sostituire quanti non sono all’altezza del compito ed a dimensionare gli organici alle evoluzioni del mercato e delle tecnologie.

La cessazione di un rapporto di lavoro non deve trasformarsi in un dramma, ma semplicemente, nella ricerca di una professione più adatta alle proprie capacità ed attitudini, con la tranquillità fornita da adeguati ammortizzatori sociali.
Il governo deve perseguire l’obiettivo affinché ogni cittadino italiano abbia la possibilità di ottenere un posto di lavoro legale, per mantenere se stesso ed i propri figli fino all’età scolastica e potersi permettere una dignitosa rendita da pensione quando non sarà più in grado di lavorare, oppure avrà accumulato un capitale pensionistico sufficiente per non pesare sulla collettività.