venerdì 13 febbraio 2009

Le quattro stagioni della crisi economico-finanziaria

Se dovessimo attribuire ai diciotto mesi, dal 2007 a giugno 2008 in cui si è maturata la bolla finanziaria, la definizione di "stagione autunnale" potremmo di conseguenza definire di essere entrati "nell'inverno economico-finanziario" da circa sei mesi. Volendo ancora giocare con l'analogia delle stagioni, ma in termini di durata, anche l'inverno dovrebbe durare diciotto mesi e quindi, meno i sei trascorsi, ne resterebbero più o meno dodici. Passerebbe così almeno tutto il 2009 prima di vedere arrivare una "primavera" agli inizi del 2010 ed una "estate" nel 2012!.

Ma come tutti ben sappiamo le caratteristiche stagionali sono influenzate da mille fattori diversi e pertanto le situazioni climatiche si presentano con variazioni importanti rispetto alle così dette "medie stagionali" e senza far scomporre più di tanto i metereologi. Ma l'uomo della strada non guarda le statistiche, ma bensì fuori della finestra o tutt'al più dà un fugace sguardo alle previsioni meteo dei media e si copre più o meno prima di uscire, prende o lascia l'ombrello e, appena incontra un conoscente, si lamenta del tempo. Non importa se faccia caldo, freddo, piova o no, si lamenta e basta. Se proprio in quel giorno non può proprio dire niente si lamenta delle previsioni.
Riportandoci alla situazione economica ed applicando "criteri metereologici" possiamo asserire che il ripetersi statistico di fenomeni di gravi crisi ha una propria ciclicità ed a questi hanno fatto seguito normalmente importanti evoluzioni. Quindi ci dobbiamo preoccupare?
Si, perché il nostro orizzonte temporale è molto breve, al massimo di pochi decenni, e coincide con ciò che è più importante per ciascuno, cioè la vita vissuta da adulto. Quel tempo in cui cerchiamo di dare concretezza ai nostri sogni e solidità economica alla nostra famiglia.
Si, perché nella metafora delle stagioni, il nostro tempo durerà poco più di un paio di "anni" e subire "due inverni (economici)" è una prospettiva quanto meno preoccupante.
Si, perché avendo ricondotto il denaro a valore primario ed insostituibile, viviamo in funzione del guadagno e talvolta, ma sempre più spesso, da ottenere anche con comportamenti e mezzi non sempre leciti o al limite dell'etica e della morale.
Si, perché ci siamo educati a voler possedere "tutto o il più possibile" ma subito!
Si, perché per troppe persone spesso apparire è più importante di essere.
Si, perché il sistema si è destabilizzato. Nelle fasi recessive gli assetti cambiano di intensità ed anche di segno. Ogni crisi, dal 1929 ad oggi, è partita da situazioni e condizioni diverse sparse nel mondo ma la globalizzazione ha portato oramai a coinvolgere tutti nel bene e nel male.
Nei tanti "Si" alcuni riguardano aspetti finanziari, altri economici, altri ancora di comportamenti umani, di cultura. Quindi possiamo parlare di cambiamento delle regole del gioco nei rapporti tra il sistema finanziario e quello industriale, tra quello politico locale e quello transnazionale, tra i sistemi produttivi interni e quelli internazionali figli della globalizzazione dei mercati, tra clienti e fornitori in un mercato aperto dove le barriere sono cadute ad una ad una. Ma anche nei rapporti tra aziende e dipendenti sia a livello sindacale che di mobilità e soprattutto nel precedente modo di intendere la vita lavorativa molto spesso fatta di garanzie e certezze.
Preoccuparci, si, perché questo stato d'animo è figlio del senso di responsabilità, ma averne paura, no.
Il problema sta nel porci realisticamente di fronte a questa grande esigenza di cambiamento, nel saperci rimettere in gioco e capire il senso di questo cambio delle regole che è certamente molto impegnativo.
In condizioni del genere, quindi, occorre effettuare una accurata verifica dei propri modelli mentali, delle assunzioni più o meno implicite derivate dall’esperienza e in base alle quali si interpreta una realtà.
E questo per una ragione in fondo semplice: la natura e il significato dei segnali che si ricevono dall’ambiente esterno cambia, anche profondamente, ed i vecchi modelli non sono in grado di interpretare i nuovi segnali, talvolta neppure a riconoscerli. Questo problema investe teoricamente tutti, ma in particolare il management di impresa (industriale, commerciale, bancaria, agricola) che dovrà dimostrare di possedere questa sensibilità.
E' del tutto evidente però che le maggiori responsabilità per la gestione di tutto ciò stanno nei leaders politici, della finanza e dell'economia. Infatti ciascuno di loro dovrebbe sempre operare in base ad una visione di lungo periodo. Ma se si passa dal dover essere all’essere, va riconosciuto che nelle fasi recessive può essere difficile, perché premono problemi immediati e la visione può essere accorciata da instabilità e turbolenze di carattere economico-finanziario. Ciò premesso la fase di ripresa deve essere assolutamente con una visione di lungo periodo perché è in questa dimensione che si possono attuare gli investimenti importanti atti a creare le premesse per la vera ripresa.
Se, da un lato, è corretto guardare a chi sta in alto per chiedere il rilancio ed i segnali di cauto ottimismo, dall’altro forse “l’uomo della strada” può dare il proprio contributo riportando alla giusta dimensione le proprie ambizioni che, seppur legittime, forse si sono spinte in questi ultimi anni al di sopra delle nostre possibilità.
Un passo indietro per riprendere meglio lo slancio.

lunedì 9 febbraio 2009

I managers privati fanno i loro interessi ma.... quelli pubblici fanno i nostri?

E' pur vero che da anni attendiamo di avere una classe politica capace di far prevalere l'interesse pubblico rispetto a quello privato. E' anche vero però che l'Italia si è retta da sempre sull'iniziativa privata, indipendentemente dalle scelte governative di qualunque colore politico. Però in quei decenni si pensava alla ricostruzione dopo aver subito e perso una guerra e forse tanto individualismo non è stato poi un gran male. Oggi stiamo cercando di superare anche il concetto della nazionalità dei mercati e di estensione all' Europa politico-economica. Ma con quale visione politica dei cittadini? Al di là dei proclami di destra e di sinistra, mi sembra che, in buona sostanza, si resti ancorati alla ricerca spasmodica del voto con una ricerca di accaparramento contingente piuttosto che con l'esporsi con programmi e azioni di medio lungo termine.
MI chiedo come sia possibile che un Governo(questo come quelli che lo hanno preceduto) trovi il modo di produrre interventi ad altissimo impatto sociale, che meriterebbero attente e profonde riflessioni, decidendo invece in pochi giorni (Caso Englaro) sollevando tanto clamore e confusion; e non trovi modo di rendere pubblica una propria decisione, antieconomica per i cittadini, facendo loro perdere denaro.

Proviamo allora a leggere questa nota di di Giorgio Ragazzi (sito La Voce)
UN'AUTOSTRADA LASTRICATA D'ORO
Istituito con un comma della Finanziaria per il 1998, il fondo ferrovia dell'Autostrada del Brennero imponeva che una parte dei pedaggi fosse destinata alla realizzazione del nuovo tunnel ferroviario. Ma la società incaricata dei lavori del nuovo traforo non è interessata a un ingresso nel capitale di Autobrennero. Il fatto è che la legge non specificava a chi appartenessero le somme accantonate e i 385 milioni del fondo potrebbero essere restituiti ai soci della concessionaria autostradale. Tutto ciò dopo il regalo del rinnovo della concessione.
L’Autostrada del Brennero ha accumulato un "fondo ferrovia" di 385 milioni, che avrebbe dovuto essere utilizzato per finanziare il nuovo traforo del Brennero. Ma la Bbt, società italo-austriaca incaricata dei lavori, e partecipata dalle Fs, non è interessata a far entrare l’Autobrennero nel capitale. Pertanto, la soluzione che sta maturando sarebbe quella di "restituire" questi 385 milioni ai soci dell’Autobrennero.È un caso emblematico degli enormi "extraprofitti" delle concessionarie autostradali in Italia, e vale quindi la pena rifare un po’ di storia.
STORIA DI UN FONDO
La concessione di questa autostrada doveva scadere nel 2005. A quella data, l’autostrada era stata interamente ammortizzata: pur con pochi ammortamenti, il valore residuo di bilancio si era ridotto a 6 milioni. Gli azionisti, che negli anni Settanta avevano investito una cifra quasi simbolica, meno di 3 miliardi di lire, si ritrovavano in cassa circa 600 milioni di liquidità e titoli, a fronte di un patrimonio contabile di 287 milioni e un "fondo ferrovia" di 302 milioni. Nel 2005 quindi si sarebbe ben potuto lasciar scadere la concessione, considerando l’enorme profitto già realizzato dalla società.Invece, la concessione è stata prorogata sino all’aprile 2014: un "regalo" non da poco, se si considera che nel 2007 la società ha avuto un Mol, margine operativo lordo, di 138 milioni e un utile netto di 66 milioni. (1)Il "fondo ferrovia" fu istituito in uno dei tanti commi dell’articolo 55 della legge 449/97 ("Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica"): un buon esempio di uso improprio della Finanziaria. L’Autobrennero l’aveva fortissimamente voluto, come giustificazione prospettica per il rinnovo della concessione, e forse i voti dei parlamentari sudtirolesi erano utili o necessari al governo di allora.Il finanziamento di investimenti ferroviari con proventi da pedaggi può anche essere giustificato, se limitato all’obiettivo di correggere esternalità ambientali. In Svizzera, due terzi dei proventi da pedaggi pagati per l’uso della rete stradale, principalmente dai mezzi pesanti, viene versato in un fondo per investimenti ferroviari. Ma si tratta di un fondo pubblico. Nel caso dell’Autobrennero il meccanismo è invece a dir poco anomalo.Innanzi tutto, i versamenti nel fondo ferrovia sono di appena 27 milioni l’anno: meno di un quarto di quanto avrebbe potuto accantonare lo Stato lasciando decadere la concessione nel 2005. In secondo luogo, la legge istitutiva non specifica a chi appartengano i fondi così accantonati. La legge dice solo che questi fondi sono "destinati al rinnovo dell’infrastruttura ferroviaria attraverso il Brennero". Non si chiariva quindi se l’Autobrennero, pur rispettando il vincolo di destinazione, avrebbe potuto investire i fondi in azioni della società che realizzerà il traforo o in prestiti erogati alla stessa, rimanendo però titolare dei diritti patrimoniali.La proposta che si sta oggi prospettando, quella di distribuire ai soci il fondo ferrovia, oltre a eliminare il vincolo di destinazione (che non è poco!) confermerebbe che non si tratta di un fondo pubblico, bensì di fondi di proprietà della società. Se così fosse, il fatto che l’accantonamento al fondo ferrovia venga anche effettuato in esenzione d’imposta, norma inserita nella legge 449/97, aggiungerebbe il danno alla beffa: rinunciando alle imposte lo Stato ha contributo per circa un terzo all’accantonamento del fondo che ora si pensa di ripartire tra gli azionisti.
ILDIRITTO DI PASSO
Questa incredibile generosità potrebbe in parte giustificarsi, se gli azionisti fossero solo enti pubblici locali, ma vi sono anche azionisti privati, tra cui indirettamente anche il fondo F2i di Vito Gamberale.Preoccupa poi che, nonostante l’esperienza di questo "fondo ferrovia", la società stia attivandosi per ottenere un’ulteriore proroga di trenta–cinquanta anni della concessione, col benevolo sostegno del nostro governo per ottenere l’assenso dell’Unione Europea, proprio con la giustificazione di destinare parte degli utili alla costruzione dell’asse ferroviario.Quando un’autostrada è interamente ammortizzata i pedaggi assumono, per la maggior parte, la natura di un’imposta, un "diritto di passo". Questo "diritto di passo" deve competere agli enti locali sul cui territorio di trova l’infrastruttura oppure allo Stato? Accettare esplicitamente il primo caso sarebbe giuridicamente difficile e comporterebbe conseguenze assai gravi, se esteso anche ad altri settori. Ma "regalare" lunghe proroghe della concessione ad autostrade possedute da enti locali non equivale proprio, implicitamente, a riconoscere loro un "diritto di passo" sul loro territorio?