mercoledì 31 marzo 2010

10 anni di lavoro flessibile: luci ed ombre

Pochi fenomeni sono riusciti a stravolgere la coscienza collettiva degli italiani come ha fatto la flessibilizzazione del mercato del lavoro negli ultimi anni. Dopo questi dieci anni la sensazione è che la flessibilità sia andata ben oltre i suoi numeri, nel senso che ha prodotto più mutamenti psichici che non strutturali. Dal 1998, entrata a regime della flessibilità, la quota del lavoro a termine, che rappresenta lo zoccolo duro della flessibilità italiana, è passato dal 8,2% al 9,8%. Su 2.631.000 nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo decennio, la maggioranza pari a 1.990.000 sono stati a tempo indeterminato, mentre il lavoro temporaneo pur crescendo del 33,7% contro il 15,4% del lavoro a tempo indeterminato, ha contribuito con 572.000 nuovi occupati. Anche sommando i numeri del lavoro atipico per antonomasia, il co.co.co., che secondo l’ISTAT rappresenta il 2,1% della forma lavoro occupata, sommato il lavoro a termine porterebbe l’incidenza della flessibilità sul totale a 11,9%.

Inizialmente la flessibilità è stata un volano che ha permesso l’esplosione, a partire dal 1996, dei co.co.co., dei contratti temporanei e del lavoro interinale che hanno favorito l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne e dei giovani in genere. Tra il 1998 e il 2007 a fronte di un incremento dell’occupazione femminile del 20,4%, quella delle donne con contratto a termine è aumentata del 47,2% portando l’incidenza del lavoro flessibile sull’occupazione femminile al 15,7% contro l’analogo dato maschile fermo al 9,4%.
La struttura occupazionale è rimasta ancorata allo zoccolo duro dei lavori standard senza riuscire ad evolversi verso un modello che favorisca una sofisticata cultura del rapporto di lavoro, anche tramite l’elasticità degli orari, il part-time e aiuti quella mobilità che l’avrebbe resa sicuramente più accettabile.
E’ emblematico come il mercato del lavoro sia rimasto impermeabile a processi di vera mobilità: tra gli occupati con contratti a tempo determinato o con co.co.co. solo il 19,9% riesce a passare a forme di lavoro stabile, mentre il 78% resta nella condizione flessibile.
Indicativo è anche il ricorso al lavoro part-time che, nonostante la crescita dell’occupazione femminile, è rimasto stabile: dal 12,4% del 1998 al 13,6% del 2007.
Infine la flessibilità, secondo un’indagine CENSIS del 2007, è servita alle aziende per ridurre i costi e per affrontare l’esigenza di picchi produttivi. Questo spiega perché il 48% delle aziende utilizzi lavoratori cui non può offrire un futuro né stabile né flessibile, mentre il 24% non sa se potrà continuare a lavorare o meno. Dal profilo socio-anagrafico dei lavoratori atipici emerge che il 51,5% è costituito da donne di giovane età. Si consideri che il 57% dei precari ha meno di 35 anni ed il 23,7% ha un’età compresa fra 35 e 70 anni, concentrati soprattutto nel terziario per un 67,9% del totale occupazione atipica, nel campo sanitario, nei servizi sociali e formativi dove si concentra da solo il 18,9%.
Inoltre a metà degli anni’90 il nostro Paese è stato il primo al mondo in cui la quota di “anziani” ha superato quella dei giovani fino a 15 anni: un record negativo su cui non si riflette ancora abbastanza.
Le conseguenze sono che ai lavoratori anziani arrivano sollecitazioni contraddittorie: da un alto sono richieste di posticipare il pensionamento per il contenimento dei costi previdenziali e dall’altro sono accusati di non lasciare spazio ai giovani per favorire il ricambio generazionale.
Per questi motivi la flessibilità ha finito per diventare, non solo l’icona di un malessere sociale profondo che trova le sue ansie e inquietudini di una collettività che cambia rapidamente e vede crescere i margini d’insicurezza e rischio, ma anche il capro espiatorio dei ruoli del mercato del lavoro incapace di coinvolgere la qualità dell’offerta con le aspettative della domanda.
I cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro non richiedono il “posto fisso” con tutti gli oneri che ne derivano, ma politiche capaci di coniugare protezione sociale, rigore di bilancio, sviluppo occupazionale.
Il Paese è già troppo bloccato ed ingessato: c’è bisogno di merito, di mobilità sociale, poiché i giovani, che sono la risorsa per il futuro, sono molto penalizzati e un ritorno al “posto fisso” significherebbe non avere la precarietà diffusa bensì la disoccupazione.
Per avere sviluppo occupazionale credo che sia necessario, soprattutto, creare le condizioni affinché le imprese possano produrre ed espandersi. Ma allora i giovani devono essere messi in grado di offrire al mercato una preparazione scolastica di eccellenza oltre all’acquisizione, attraverso il lavoro, delle competenze professionali che saranno richieste. Essi dovranno dimostrare alle aziende una concreta disponibilità all’assunzione di responsabilità per essere tangibilmente una “risorsa” indispensabile alla crescita di impresa. Questa “risorsa” sarà sicuramente tenuta stretta, valorizzata attraverso al formazione e gratificata con un riconoscimento del merito sia sul piano economico sia quello professionale.
Il “merito” è un argomento che è riemerso come un fiume in piena dopo essere rimasto per decenni sepolto sotto le scorie di un pensiero ispirato a una concezione radicale del principio di uguaglianza che non accettava qualsiasi criterio di differenziazione. Il nostro Paese e non solo lui, ha pagato duramente quest’utopia che umiliava tutte quelle persone che prestavano la loro attività con il massimo impegno personale, serietà professionale e senso di responsabilità. Dall’aumento retributivo uguale per tutti al posto fisso il passo è breve ed ha creato facili illusioni che hanno penalizzato la crescita del Paese, anzi, ne hanno favorito la stagnazione economica, come dimostrano i dati OCSE

giovedì 25 marzo 2010

Camera: svelati i conti segreti

Camera: svelati i conti segreti

di Daniele Passanante

Rita Bernardini è una deputata radicale eletta nelle liste del Partito democratico. Con tenacia e convinzione ha appena vinto una battaglia in nome della trasparenza: rendere pubblici via internet i conti e le spese di gestione di Camera e Senato. Ci avevano provato i radicali anche ai tempi in cui presidente della Camera era Nilde Iotti, ma senza risultati. Ora grazie anche alla sensibilità del presidente Gianfranco Fini, i conti sono stati resi pubblici. Ma molte sono state le resistenze da parte di chi amministra le due camere. I dati sulle collaborazioni e le consulenze della Camera, vigenti all'1 gennaio 2010, e l'elenco delle ditte con le quali sono in corso contratti di lavori, forniture e servizi, sono stati ottenuti da Bernardini dopo una vera e propria battaglia durata mesi culminata in uno sciopero della fame in risposta al diniego dei deputati questori di Montecitorio di accedere alla documentazione.In un Paese normale questi dati sono trasparenti.


Perché in Italia no, al punto che nemmeno un deputato può ottenerli se non dopo uno sciopero della fame? Perché ci sono state delle resistenze da parte dell'amministrazione della Camera e da parte dei questori che gestiscono tutta l'amministrazione per conto dei partiti e dei gruppi parlamentari. Resistenze che mi hanno particolarmente insospettito e che sono state battute solo grazie, all'iniziativa che ho portato avanti, e alla disponibilità del presidente della Camera Gianfranco Fini. È stato importante essere riuscita a scovare un regolamento interno dell'amministrazione della Camera dove espressamente all'articolo 68, comma 4 è invece previsto che i deputati possano accedere a queste informazioni. È un regolamento sconosciuto ai deputati, che non è messo nemmeno online e che io sono riuscita ad avere e a studiare. Ovviamente lo abbiamo messo a disposizione di tutti nel sito Boninopannella.it questa cosa è particolarmente significativa perché l'amministrazione della Camera e del Senato non sono soggette ad alcun controllo di spesa. Però a me è apparso strano, nel momento in cui si discuteva in aula l'approvazione del bilancio interno, il fatto che noi non potessimo accedere agli atti.
Lì i questori sono stati incredibili: Mazzocchi mi ha detto che non era previsto dalla normativa europea. Mi hanno risposto dopo mesi dicendo che non avevo diritto e che erano loro che controllavano e che semmai avrei potuto chiedere a loro dei chiarimenti. Insomma hanno mentito spudoratamente. Quello che è incredibile che possono permettersi di mentire senza ricevere alcuna sanzione. Finché è intervenuto Fini che mi ha mandato un bigliettino molto carino.
Dopo l'autorizzazione di Fini, come ha collaborato l'amministrazione? Il bigliettino di Fini è del 2 febbraio, il 3 mi è arrivata la prima tranche, le collaborazioni e un elenco dei fornitori solamente con il nome della ditta senza specificazioni di importo e di lavoro svolto. Allora ho chiesto di avere altri dati. Il 9 febbraio mi hanno dato tutto. L'altra cosa importante è che noi possiamo accedere ai contratti, io posso chiedere di qualunque contratto i termini in cui è stato stipulato. Nella relazione del professor Crivellini del Politecnico di Milano a cui ho mandato il regolamento viene fuori che dal segretario generale ai questori hanno una possibilità di spesa molto significativa. Il segretario generale può spendere fino a 250mila euro, naturalmente oltre allo stipendio, per opere legate al suo ufficio.
La relazione è interessante per vedere il potere dell'amministrazione della Camera e soprattutto l'impossibilità dei controlli. Alla fine emerge una sorta di monopolio da parte di una società, la Milano90 srl, è regolare? Ieri Pannella ha detto che ci sono elementi da codice penale, la Procura della Repubblica di Roma definita da Pannella la "grande in sabbiatrice” potrebbe indagare. Poi queste cose sono fatte in modo che siano tutti d'accordo. L'impresa Milano90 di Scarpellini cerca di accontentare tutti nel gestire questo immenso budget. Qui si può vedere come funzionano i gruppi di potere che ci sono e si spartiscono cifre consistenti. Alla fine le spese totali di Camera e Senato sono eccessive rispetto ad altri Paesi?
Un confronto è stato fatto in passato. Credo proprio che le spese siano eccessive. ma quello che è più grave, io non mi spavento delle cifre ma degli strumenti che hanno a disposizione i deputati per svolgere il proprio lavoro. Per esempio Palazzo Marini, dove i deputati hanno i loro uffici, io ci ho messo piede 3 volte, poi mi sono stufata. Preferisco rintanarmi in un angolo del Partito Radicale.
A Palazzo Marini il computer è lento, chiedere un'informazione a qualcuno è quasi impossibile, per arrivare alla stanza mi sono dovuta portare la bussola perché c'è un labirinto di ascensori e scale. e se pensiamo che costa 9mila euro al mese per ogni deputato avere quel posto infernale, io ho fatto la battuta: me ne vado al Grand Hotel. Quei denari potrebbero essere utilizzati dai deputati per approfondimenti, studi, inchieste.
Sono anche soldi spesi male, poi ti riempiono di cancelleria. Quando sono entrata lì non so quante penne, blocchi e carta mi hanno dato e stanno lì ancora immacolati, cose che servirebbero in un ufficio per 20 anni. Non c'è il rischio di fare demagogia su un tema facile? Infatti, io che cosa ho detto?
Questi soldi sono anche spesi male. Anche la parte che ho trattato ieri in conferenza stampa, sull'assistenza sanitaria per i deputati, i familiari e i conviventi (le coppie di fatto valgono per i deputati): prevedere la chirurgia plastica, la balneoterapia e tutte le altre cose mi sembra uno spreco, una cosa eccessiva, rispetto da quello che è previsto dal servizio sanitario nazionale per il cittadino. L'assistenza giusta va pretesa per tutti i cittadini. Se un deputato vuole fare la chirurgia plastica, se la paghi.
Tra l’altro questo fondo di solidarietà tra gli onorevoli comporta che io non possa sapere niente di come è gestito. Lo gestiscono i questori. Io non voglio sapere quale deputato ha usufruito di cure particolari, ma quanti, sì. Si potrebbe prevedere di contenere questo tipo di spese, non sono cose demagogiche ma ragionevoli. La cosa importante è che questi dati messi online consentono al cittadino di informarsi e al deputato di controllare. Tranne i radicali nessuno in passato ha chiesto questo tipo di informazioni.
Si parla di un partito che è per la trasparenza come l'Italia dei Valori, ma non hanno detto una parola. E loro stanno nell'ufficio di presidenza. Perché deve essere venuto in mente a me e non a uno dell'Italia dei valori eppure i giornali gli fanno una pubblicità incredibile. Anche sull'anagrafe pubblica dei deputati, poter vedere online quello che fanno, compresa la loro anagrafe patrimoniale, anche lì se si guarda la risposta dei questori è esilarante.
Mi hanno risposto che in base alla legge dell'82, i dati li possono avere solo gli elettori, se li mettiamo online possono leggerli anche gli altri (ovvero minori ed extracomunitari). Potevano dire che online si prevede che l'elettore che presenta i suoi dati elettorali può accedere ai dati. E invece niente. Che reazioni ci sono state? Qualche uccellino mi ha detto che in questi giorni l'amministrazione della Camera è stata molto in fibrillazione. Mi hanno detto che volevano interrompere la conferenza stampa.
Potevano fare una cosa più intelligente e precederci nel rendere pubblici questi dati. Perché tanta resistenza?


giovedì 18 marzo 2010

Le responsabilità di un dirigente Amministratore Delegato di una S.p.A o S.r.l

La figura dell’ Amministratore Delegato è disciplinata dagli Artt. 2380 ss. del c.c.
In Particolare, in tema di responsabilità dell’ amministratore, l’ Art. 2392 del c.c. dispone che “gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori”. E prosegue dicendo che “in ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell'articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”


Nei confronti dell’Amministratore, la Società può esperire, dunque, l’ azione sociale di responsabilità ex Art. 2393 c.c., entro cinque anni dalla cessazione dell’ amministratore dalla carica; tale azione, inoltre, può essere esercitata anche dai soci che rappresentino almeno un ventesimo (nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischi, altrimenti un quinto) del capitale sociale (o la minore misura prevista dallo Statuto) ex Art. 2394.
L’Amministratore Delegato, poi, ai sensi dell’ Art. 2394, risponde “verso i creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale. L'azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. In caso di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa della società, l'azione spetta al curatore del fallimento o al commissario liquidatore. La rinunzia all'azione da parte della società non impedisce l'esercizio dell'azione da parte dei creditori sociali.
Giova evidenziare che, dopo la riforma del 2003, la diligenza richiesta non è più quella del “buon padre di famiglia”, non è più quella del mandatario, bensì è “la diligenza richiesta dalla natura dell’ incarico e dalle specifiche competenze”. La valutazione viene così ad essere svolta sulla base di un doppio parametro: la natura dell’ incarico, parametro oggettivo e generale, applicabile a qualsiasi amministratore di s.p.a. in quanto tale; ed un parametro meramente personale che analizza le specifiche competenze di chi ricopre la carica di amministratore, analisi svolta sulle competenze specifiche della persona, sul suo curriculum, sulle esperienze professionali e formative. Va precisato che la legge non pretende che gli amministratori siano esperti in contabilità, in gestione finanziaria o altro, ma si chiede che le loro scelte siano meditate e ponderate, informate e basate sul rischio calcolato, non frutto di improvvisazioni e/o negligenti valutazioni. La posizione di ciascun amministratore solidalmente responsabile verrà valutata distintamente, in relazione alle circostanze di ciascuno ed in relazione ai diversi obblighi in capo a ciascuno. La responsabilità degli amministratori è infatti una responsabilità per colpa e per fatto proprio. Tuttavia, l’ Art. 2381 c.c., III comma, attribuisce agli amministratori deleganti il “controllo degli assetti”, con obbligo di rendicontazione. Il combinato disposto degli Artt. 2392 e 2381 c.c., autorizza quindi a pensare che tutti gli amministratori sono solidalmente responsabili degli atti gestori.
Si rammenti, infine, la disciplina sul c.d. conflitto di interessi dell’ Art. 2391 c.c.: L’ amministratore deve dare notizia di questo interesse verso la nuova attività a tutti gli amministratori e sindaci, ma anche deve precisarne “la natura, i termini, l’ origine e la portata”, non deve invece più astenersi dalle votazioni nelle deliberazioni in cui versi in conflitto di interessi. Una volta dichiarato ed esplicitato il proprio interesse, ha diritto di esprimere il suo voto sull’ operazione oggetto di delibera, se tuttavia è nella posizione di amministratore delegato, allora deve astenersi dal compiere l’ operazione “investendo della stessa l’ organo collegiale”.




La disciplina sopra riportata si applica anche agli Amministratori delle Srl, giusto il richiamo operato dall’ Art. 2487 c.c.

Accanto alla responsabilità civile dell’ Amministratore per “mala gestio”, ci sono numerosi altri profili di responsabilità. In particolare:

Responsabilità penale per reati (propri o a titolo di concorso, attivi o omissivi) commessi nella gestione: oltre ai reati previsti dal codice penale e da altre leggi speciali (in particolare i c.d. reati fallimentari, fiscali e societari), il Legislatore ha inserito nel c.c. alcune disposizioni penali in materia di società (titolo XI del Libro V); nello specifico, il capo secondo ( Artt. 2626-2641) disciplina gli illeciti commessi dagli amministratori, con sanzioni assai pesanti.
Qualche esempio: concorso in bancarotta fraudolenta ex Art. 223 legge fallimentare (reclusione da 3 a 10 anni); ricorso abusivo al credito ex Art. 225 legge fallimentare (reclusione da 6 mesi a 3 anni); denuncia di crediti inesistenti ex Art. 226 legge fallimentare (reclusione da 6 a 18 mesi); dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex Art. 2 d. lgs 74/2000 (reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni); sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex Art. 11 d. lgs 274/2000 (reclusione da 6 mesi a 4 anni); formazione fittizia di capitale ex Art. 2632 c.c. (reclusione fino ad un anno); aggiotaggio ex Art. 2637 c.c. (reclusione da 1 a 5 anni).
Come noto, ai fini della configurabilità della responsabilità penale, di regola è necessario il dolo (e talvolta il dolo specifico), ma ciò non esclude il rischio di un’ azione penale esercitata nei confronti di un Amministratore Delegato, con tutto ciò che ne consegue (e a prescindere dall’ esito finale). Non mancano, tuttavia, ipotesi di responsabilità colposa, come ad esempio la bancarotta semplice ex Art. 224 (con reclusione da sei mesi a due anni).
Responsabilità connesse al D. Lgs. 231/01, che ha introdotto la c.d. “responsabilità amministrativa degli enti”: si tratta di una responsabilità sostanzialmente penale in capo alla Società (in deroga al principio “societas delinquere non potest”), per reati commessi nell’ interesse o a vantaggio dell’ ente da soggetti funzionalmente legati ad esso (sia in posizione apicale sia sottoposti all’ altrui direzione).
In relazione a tale disciplina, l’Amministratore Delegato deve predisporre dei modelli organizzativi tali da evitare la commissione dei reati (c.d. compliance programs), in assenza dei quali la Società può essere condannata sia a sanzioni pecuniarie sia interdittive. Si capisce, quindi, che all’Amministratore è chiesto un surplus di responsabilità, atteso che questi deve vigilare anche sulla realizzazione e sul corretto funzionamento dei suddetti modelli organizzativi.
A prescindere dai profili patrimoniali (cioè quelli legati alla responsabilità per danni economici che deriverebbero alla Società in conseguenza di un processo “penale” a suo carico), è facile immaginare un coinvolgimento penale diretto dell’Amministratore Delegato per sue eventuali responsabilità omissive.
Responsabilità connessa alla violazione di norme sulla sicurezza sui luoghi di lavoro: il nuovo testo unico sulla sicurezza (d. lgs. 81/2008) ha individuato una serie di obblighi in capo al soggetto responsabile dell’ organizzazione aziendale, quale è l’ Amministratore, nell’ ambito delle competenze a lui delegate. L’Amministratore Delegato (quale alter ego del datore di lavoro) è a tutti gli effetti “debitore di sicurezza” nei confronti di tutti i soggetti che operano in azienda (non soltanto i lavoratori subordinati, ma qualsiasi soggetto che si trovi all’ interno della struttura aziendale). Le responsabilità che derivano da questa posizione di garanzia in cui si viene a trovare l’Amministratore delegato sono sia di natura penale (laddove previsto, anche da leggi speciali: si va dalla mera violazione di norme antinfortunistiche, passando per le lesioni colpose, fino all’ omicidio colposo) sia di natura civile (risarcimento del danno).

domenica 7 marzo 2010

Quale il ruolo del Direttore delle Risorse Umane nel futuro?

Il 19 febbraio, presso la Guala Pack S.p.A di Castellazzo (AL), organizzato da Federmanager Alessandria e Asti, si è tenuto il V Forum dei Direttori del Personale, per un confronto sul tema “La direzione delle Risorse Umane. Evoluzione del ruolo e sue prospettive”.

Hanno partecipato 26 Direttori del Personale ed esperti di relazioni industriali, mentre, pur aderendo al Forum, non hanno potuto presenziare altri otto colleghi per sopraggiunti impegni presso le loro aziende

L’incontro è iniziato con la presentazione dell’azienda Guala Pack ed una visita guidata allo stabilimento da parte dei vertici aziendali, dopodichè si è entrati nel merito dell’ordine del giorno con una relazione introduttiva di Michele Bramardi, già Direttore di Confindustria Alessandria, che ha sottolineato preliminarmente quanto il Direttore del Personale abbia dovuto confrontarsi, dagli anni 70 al 2000, con scenari diversi, adattando le proprie conoscenze e le proprie azioni alle mutate esigenze.

Partendo dagli anni 70, ha sottolineato che erano gli anni dello Statuto dei lavoratori ove tutto o quasi, era concesso ai lavoratori ed ai sindacati con una specie di “attacco alla diligenza/impresa” e dove pertanto, i responsabili del personale non potevano fare altro che resistere.
Gli anni 80 furono gli anni delle ristrutturazioni con la necessità di gestire le riorganizzazioni e di inventarsi nuove soluzioni di concerto con Proprietà e Direttori di produzione.
Negli anni 90, finalmente si raggiunse un po’ di equilibrio. Sostanziale parità di condizioni ed una funzione anche di mediazione tra opposte esigenze, quelle dell’Impresa e quelle dei lavoratori.
Ed infine, negli anni 2000, prima della grande crisi attuale, con la ricerca del consenso, anche preventivo e con un maggior dialogo con la Controparte.

Ritornando alla sopracitata evoluzione di scenari, per difendere la trincea erano necessarie doti di coraggio fisico e psicologico, la conoscenza della materia giuslavoristica era opportuna ma non indispensabile, era sufficiente essere un po’ “ex carabiniere” per gestire i rapporti con i dipendenti peraltro ancora un po’ succubi dell’autorità costituita, sia pure galvanizzati dal potere derivato dalle nuove legislazioni e normative. Non si dimentichi peraltro che erano gli anni del terrorismo, delle Brigate rosse e di Lotta continua, dove anche l’incolumità personale era minacciata e dove era sufficiente attestare che si ricopriva la carica di Direttore del personale per avere riconosciuto il porto d’armi!

Passato un brutto ventennio (70/80) e le brutte condizioni allora in atto, con il miglioramento delle relazioni industriali, cambiarono anche i ruoli del Direttore del personale, nonchè le sue conoscenze, allargandosi anche ai settori della produzione, dell’amministrazione, di scorte e magazzini, dei rapporti con la clientela, tutti rivoli importanti che confluivano poi anche nella gestione del personale.

Il Direttore del personale dovette diventare un po’ “tuttologo”, addentrarsi in materie diverse da quelle a lui specifiche e quindi si rese necessaria non solo una preparazione di base, scolastica e/o universitaria più approfondita, ma anche di costante formazione ed aggiornamento sulle più svariate tecnologie inerenti alla gestione dell’impresa.

Diventò anche team manager, grazie alle sue innate doti di mediatore tra diverse esigenze aziendali e non furono rari i casi in cui alcune Proprietà affidarono ai Direttori del personale incarichi di Direttore Generale e/o Amministratore Delegato.
Fu necessario approfondire le tecnologie su materie di pertinenza specifica quali la ricerca di personale, la formazione dei collaboratori, l’inserimento in azienda delle tecnologie informatiche a dispetto delle resistenze del personale più anziano poco propenso ad abbandonare il cartaceo, la produzione e la produttività, il rapporto con i sindacati, con le rappresentanze sindacali aziendali e con le maestranze affinando altresì le sue innate caratteristiche di psicologo.
Ed infine Il Direttore del personale dovette rendersi conto che le persone che doveva gestire erano - e sono – profondamente cambiate: più istruite, più moderne, meno disponibili al comando, ma collaborative al ragionamento, in altre parole era diventato fondamentale – e lo sarà anche per il futuro – una approfondita conoscenza collettiva ed individuale delle persone a lui affidate. E conseguentemente diventò – e diventa – indispensabile adeguare ed indirizzare le proprie azioni a questa realtà, consapevole più che mai che le “fortune” dell’Impresa non possono prescindere da una adeguata partecipazione del personale dipendente.
Vista dall’esterno, anche se in contatto quotidiano con i responsabili del personale questa è sinteticamente l’evoluzione della funzione come conosciuta da Vicedirettore Confindustriale.
Una evoluzione carica di significati ed anche affascinante, per i contenuti, per il costante contatto umano e per le relazioni a 360° con l’universo del mondo dell’impresa e di quanto le sta intorno.

Così introdotto il tema ed evidenziati alcuni punti di riflessione, Bramardi ha passato la parola a chi ha vissuto direttamente queste esperienze a chi la sta vivendo e la vivrà nei prossimi anni.
Il primo contributo è stato di Camillo Sangiovanni gia Direttore HR Michelin che ha preliminarmente evidenziato uno scostamento dalla relazione introduttiva, sostenendo che la figura del direttore del personale, a suo giudizio, non è stata particolarmente influenzata dagli scenari descritti, ma è stata sostanzialmente lineare nel tempo con la sua funzione e con le sue prerogative.
Se distinzione c’era, era più che altro dovuta dal fatto che ogni azienda aveva i suoi valori e le sue politiche del personale e che a queste il direttore del personale doveva uniformarsi.
La vita in azienda non era influenzata da particolari aspetti politici e ciò che dominava era la subordinazione ed il rispetto.
Indispensabile era avere obiettivi ben definiti e risorse di persone il più possibile collaborative: da questo binomio/rapporto dipendeva una proficua gestione del personale. Importante era anche anticipare gli eventuali problemi, altrimenti “ si ascoltava e ci adeguava”. Importante era anche il sempre valido buon senso e l’insegnamento degli anziani famigliari “Fatti voler bene” che voleva semplicemente dire “Sii equilibrato e non commettere ingiustizie”.

Il secondo contributo è stato di Corrado Pagani attuale Direttore H.R. di Rotomec gruppo Bobst anch’ egli sostenitore della tesi di diversità di impostazione a seconda dell’Azienda in cui si opera. Equità e giustizia rappresentano una caratteristica fondamentale della funzione, essere intellettualmente onesti è un obiettivo cui si dovrebbe costantemente puntare, pronti anche a mettersi a disposizione e a supportare i Colleghi nelle loro problematiche e scelte senza voler peraltro entrare troppo nel merito delle loro specifiche competenze nè invadere le loro prerogative. E di fronte ai grandi problemi dell’oggi, i direttori del personale devono essere disponibili all’innovazione ed al cambiamento.

Il terzo intervento ha visto protagonista Elisabetta Pittaluga, attuale Direttore HR di Guala Pack, che ha sottolineato come correttamente oggi il Direttore del personale sia definito il Direttore delle Risorse Umane, perchè è corretto ed opportuno definire le persone che operano in azienda come una vera e propria risorsa da utilizzare e sviluppare. E non solo i cosiddetti “talenti” ma anche coloro che talenti non sono nè potranno diventarlo, comunque importanti e preziosi per il bene dell’Azienda. I valori aziendali , la cultura d’azienda ed il clima negli uffici ed in stabilimento rappresentano un aspetto fondamentale cui ispirarsi nelle azione quotidiane e su cui indirizzare ogni collaboratore. Indubbiamente si è di fronte ad un mondo nuovo ed in costante evoluzione che non può prescindere da una visione improntata a tempi medio/lunghi. Ma ritornando al presente la dottoressa Pittaluga si è fatta una domanda attendendo una risposta dal successivo dibattito: “Siamo e/o dovremo essere tessitori o tagliatori?”

Gli interventi che si sono succeduti nel corso di oltre due ore di dibattito hanno evidenziato quali e quante sfaccettature rivesta la funzione del personale, con quanti aspetti ci si deve confrontare ogni giorno e quanti obiettivi si dovrebbero perseguire. Innanzitutto la non facile e complessa riduzione dei costi, imposta dal difficile momento in atto liberandosi del superfluo e nel tentativo di mediare opposte esigenze. Essere mediatore sociale, ricercando di contemperare le esigenze dell’impresa e di chi gli sta dentro o intorno non è certo facile ed impone responsabilità aggiuntive creando anche grandi preoccupazioni personali. E’ difficile ristrutturare e contemporaneamente chiedere collaborazione; solo una adeguata comunicazione può essere di significativo ed utile supporto.

E’ stato evidenziato che nella ricerca di efficienza, indispensabile in questi complessi momenti, è molto opportuno il far lavorare volentieri e senza eccessive pressioni, con la logica premessa dell’esigenza di essere coerenti tra gli obiettivi ed i mezzi per raggiungerli. Il che non vuol dire mediare ad ogni costo, anzi ciò potrebbe essere distorsivo, soprattutto se rivolto ai singoli, in quanto potrebbe ingenerare ipotesi di privilegi e pericolosi effetti “a catena”.

Non è mancata l’osservazione che oggi per salvaguardare l’Impresa e chi ne fa parte è necessario ricercare ed ottenere il risultato: è indispensabile a questo proposito dare un senso agli interventi e costruirli sulla base di una stringente logicità. Sarebbe opportuno pensare a creare organismi interni che aiutino a capire, aumentando la consapevolezza attraverso una approfondita attività di educazione.

La motivazione delle risorse umane deve essere un obiettivo e soprattutto un mezzo per perseguire i fini da raggiungere sia a livello individuale che collettivo: come già ricordato oggi il collaboratore è più moderno, istruito, disposto a fare la sua parte certamente se soddisfatto nei suoi beni primari (soprattutto la retribuzione), ma anche se adeguatamente coinvolto nelle scelte, anche piccole, e nei mezzi idonei per perseguirle.
Con una esemplificazione non banale è stato anche ricordato che il Direttore del personale e chi in generale ha compiti manageriali in azienda, è come l’allenatore di una squadra sportiva: una volta indirizzato il timone in una certa direzione – confidando sia quella giusta – il team deve muoversi verso quell’obiettivo, deve “giocare” come l’allenatore dispone e chi non si adegua deve necessariamente tornare in panchina... o peggio!
E’ anche opportuno che il business non sia privilegio e competenza di pochi eletti: le risorse umane – almeno quelle più mature e disponibili – possono e debbono conoscere ed il direttore del personale deve entrare in una relazione attiva con i collaboratori, consapevole che se l’Azienda cambia devono cambiare anche i collaboratori. Il tutto nel rispetto della più stringente correttezza: qualche volta si può anche peccare in trasparenza, ma in correttezza mai, pena la perdita di credibilità.

Un altro tema toccato è stato quello multietnico . Ormai quasi tutte le aziende devono confrontarsi con il problema – ovvero con la risorsa – di avere del personale con diverse provenienze, culture ed esigenze. L’approccio non può essere negativo, ma pur nella difficoltà, bisogna cercare di valorizzare le differenziazioni cogliendo ciò che c’è di positivo e migliorando quanto di negativo potrebbe incidere nella normale gestione delle risorse.

E’ stato infine evidenziato che il contratto di lavoro non è più sufficiente a regolare i quotidiani rapporti tra Impresa e Personale: bisogna essere pronti ad andare anche oltre le rigide pattuizioni codificate dall’Alto. Ci vogliono progetti aziendali auspicabilmente condivisi, su cui lavorare, finalizzati a migliorare le performance di entrambe le Parti, abbandonando nei fatti e nei comportamenti la “logica” delle Controparti (o peggio della lotta di classe), che non ha certo alimentato positivamente per tanti anni la vita e la gestione aziendale