martedì 13 febbraio 2007

Invecchiamento classe dirigente

Relazioni pericolose
(Riprodotto dal sito www.lavoce.info)
Fabiano Schivardi
Francesco Lippi

L’invecchiamento della classe dirigente italiana è un fatto ben documentato, solo in parte riconducibile a cause demografiche. (1) Di per sé, il fenomeno non è necessariamente indicatore di un problema: in assenza di frizioni la scelta dei manager si basa sul merito e l’età non gioca alcun ruolo nella selezione; una classe dirigente "vecchia" indicherebbe che gli anziani sono mediamente più abili dei giovani, ad esempio grazie all’esperienza. (2) Molti osservatori, tuttavia, avanzano il sospetto che la fitta presenza di ultrasettantenni nelle posizioni strategiche in Italia non rifletta una maggiore abilità di gestione, ma derivi da barriere che ostacolano l’accesso dei giovani alle posizioni di potere. Colpisce, ad esempio, la ristrettezza della cerchia entro cui vengono selezionati i manager, specialmente, ma non solo, quelli di nomina pubblica. (3) Molti sono i nomi in circolazione da decenni che periodicamente ricompaiono, nei settori più disparati, raramente sostenuti da una storia di risultati di gestione eccellenti.
L’importanza del network

Quale motivo può indurre una selezione dei dirigenti che premia l’anzianità (anagrafica e di servizio) a scapito dell’efficienza? Secondo la letteratura aziendale, l’affermazione di un manager non dipende solo dalle sue capacità operative, ma anche da quelle relazionali e dal fatto di appartenere a un network. Questa ipotesi aiuta a interpretare il fenomeno dell’invecchiamento in Italia. La distribuzione del talento relativo alla gestione aziendale è variabile tra i giovani come tra i vecchi: produttività ed età sono, in generale, indipendenti. Ma lungo un’altra dimensione, quella sociale, gli anziani dominano i giovani per l’appartenenza a una rete di relazioni, gruppi di interesse o lobby politiche. La rete si costruisce principalmente col tempo, e i giovani sono quindi meno "connessi" degli anziani. Assumere un manager con cui si condividono frequentazioni e contatti facilita all’azionista di controllo il perseguimento di obiettivi diversi dalla pura massimizzazione del valore, quali politiche di assunzione che creino consenso (importanti per un controllante di natura politica), scelte aziendali che favoriscano l’affermazione, il prestigio e il potere di una famiglia o lobby. Se chi controlla l’impresa affianca all’obiettivo della gestione efficiente quello di un management legato a un network, il manager vecchio viene preferito al giovane, a parità di talento. Questa ipotesi ha implicazioni chiare sulla relazione fra età del management e produttività. (4) Quanta più importanza si attribuisce all’appartenenza a un network rispetto alla pura capacità di gestione, tanto maggiore è la quota di manager anziani in azienda e tanto minore la produttività complessiva dell’impresa: l’appartenenza fa premio sull’efficienza. Al contrario, tra le aziende che hanno come unico obiettivo l’efficienza produttiva (e non sono quindi interessate al capitale relazionale in sé), età dei dirigenti e produttività sono indipendenti: la selezione avviene solo in base alla capacità.
La verifica empirica
Per una verifica empirica di questa ipotesi abbiamo utilizzato dati su circa mille imprese manifatturiere italiane fra l’inizio degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta. Le imprese sono state classificate in cinque gruppi, a seconda che la natura del controllante fosse persona fisica/famiglia, operatore pubblico (Stato, enti locali eccetera), holding di imprese, società finanziaria o controllante estero. La nostra congettura è che le imprese familiari, quelle pubbliche e, in alcuni casi, quelle appartenenti a gruppi siano inclini a perseguire obiettivi diversi dalla semplice massimizzazione del valore e quindi più interessate a selezionare manager all’interno di determinati network. Ad esempio, un politico si potrebbe servire dell’impresa per favorire la propria rielezione, anche a scapito dell’efficienza; una famiglia può trarre dall’impresa prestigio e riconoscimento sociale; holding industriali possono favorire certe imprese del gruppo rispetto ad altre nelle transazioni infra-gruppo. L’analisi empirica analizza il legame tra la produttività a livello di impresa (calcolata come produttività totale dei fattori, Ptf) e l’età dei manager (misurata dall’età media dei manager dell’azienda) in ciascuno dei cinque gruppi.I risultati indicano che produttività ed età dei manager sono negativamente correlate per le imprese a controllo pubblico. L’elasticità è unitaria: aumentando del 10 per cento l’età dei manager, si riduce di altrettanto la Ptf. Inoltre, coerentemente con la nostra ipotesi, l’età (media) dei manager nelle aziende a controllo pubblico è più alta rispetto al resto del campione (di circa 1,5 anni). Se queste imprese avessero un management con la stessa età delle altre, la loro produttività crescerebbe fra il 3 e il 6 per cento. La relazione fra età dei manager e Ptf è negativa anche per le imprese familiari, con un’elasticità che varia fra il 10 e il 25 per cento e, in maniera meno netta, per quelle controllate da una holding. Non emerge, invece, nessuna relazione sistematica tra produttività ed età dei manager per le imprese controllate da istituzioni finanziarie o da società estere. Ciò avvalora l’ipotesi che questo tipo di controllanti siano meno interessati a obiettivi diversi dalla pura massimizzazione del valore dell’impresa. (5)
Alitalia, una cartina di tornasole
L’evidenza è in linea con un’interpretazione dell’invecchiamento della classe dirigente italiana che, come ipotizzato da molti, è sintomo di un malfunzionamento dell’economia. La radice del problema è la preferenza dei controllanti per manager "connessi", anche a discapito dell’efficienza produttiva: "buone" frequentazioni valgono più di un buon curriculum. Chi è interessato a questi temi seguirà con interesse la privatizzazione dell’Alitalia: sarà pilotata verso imprenditori "amici", i quali a loro volta nomineranno i manager pescando dalla solita cerchia di nomi? Oppure per una volta si utilizzerà il criterio delle capacità imprenditoriali indipendentemente dall’appartenenza a un network, magari con un amministratore delegato che non fosse già tale ai tempi dello sbarco sulla luna?

(1) Non si osserva in altri paesi che registrano un simile invecchiamento della popolazione.(2) Il recente contributo di Francesco Daveri su questi sito commenta l’esperienza finlandese, dove il rapporto fra anzianità di servizio e produttività varia a seconda del settore considerato, si veda qui. (3) Si veda ad esempio l’articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 10.1.2007. (4) Il modello teorico, i dati utilizzati e i test empirici sottostanti a questa nota si basano su un lavoro in corso di preparazione, a cura degli autori. (5) Risultati simili si ottengono utilizzando l’anzianità di servizio come misura di appartenenza a un network: anche in questo caso, la relazione fra Ptf e anzianità di servizio è negativa per le imprese familiari e per quelle pubbliche, che hanno anche la quota più alta di manager da lungo tempo impiegati nell’azienda.

mercoledì 7 febbraio 2007

PMI = quale sviluppo ?

La dimensione delle piccole e medie imprese italiane: come affrontare il processo di sviluppo

L’annoso problema della dimensione delle imprese italiane contrappone i fautori del “piccolo è bello” a coloro che ritengono indispensabile - nell’attuale processo di globalizzazione - accelerare il processo della crescita dimensionale. Si tratta di capire come sia possibile favorire la crescita della nostra impresa senza “snaturarne” le sue peculiarità.
Il nostro Paese è sempre stato caratterizzato da imprese con struttura dimensionale ridotta, spesso ritenuta il loro punto di forza, soprattutto in un contesto economico nel quale si è venuto progressivamente maturando il sistema dei distretti, divenuto un esempio di “cooperazione economica” anche al di fuori dei confini italiani.

La realtà nella quale si trovano attualmente ad operare le aziende italiane (a livello nazionale e, in maggior misura, quelle con spiccata vocazione internazionale) impone alle stesse la necessità di rivedere la loro strategia dimensionale, valutando con maggior attenzione le opportunità offerte da dimensioni più ampie, opportunità purtroppo compressa e penalizzata da numerosi vincoli ed ostacoli, sia interni che istituzionali (1).Il problema si presenta purtroppo in modo “strutturale”, nel senso che - spesso - le strategie di crescita devono fare i conti con l’impostazione verticale di un’impresa familiare che vuole rimanere tale. In altre parole, il processo di crescita dimensionale - in molte realtà economiche italiane - richiederebbe di affiancare all’imprenditore un “nuovo” team di esperti e professionisti capaci di colmare i suoi naturali “gap” in campo finanziario, economico ed aziendale. Si tratta di un problema di non poco conto, ma lo scenario delle nostre imprese è comunque meno oscuro e complesso di quanto possa sembrare da queste prime osservazioni.
In primo luogo, si deve considerare che in Italia alcune imprese sono di piccola dimensione in quanto trattasi di giovani imprese, da poco costituite e pertanto di dimensioni ridotte non per scelta, ma per “età”. Inoltre, come anticipato, il modello di produzione industriale a rete basato sui distretti (nel quale convergono molte imprese di piccole dimensioni con vocazione all’internazionalizzazione) si sta rivelando uno schema quanto mai moderno ed appetibile. E questo è un bene o per lo meno una potenziale risorsa nella competizione internazionale, in quanto le piccole imprese non vanno più considerate singolarmente ed isolatamente, ma insieme al sistema del quale fanno parte ed all’interno del quale la piccola dimensione è di supporto alla grande e viceversa, autoalimentandosi a vicenda.
Se sono ormai maturi i tempi per abbandonare la discussione e la contrapposizione tra grande e piccolo, il nodo del problema è allora - ancora una volta - quello della crescita. Si tratta di vedere come sia possibile far “crescere” le capacità di azione delle piccole imprese senza “forzare la mano” e precorrere troppo i tempi, onde evitare “brusche frenate” in corso d’opera: si tratta, cioè, di tracciare un percorso di crescita che sia effettivamente sostenibile. Bisogna poter fornire la risposta alla domanda “Come possono le piccole e medie imprese del made in Italy rimanere flessibili e continuare a competere sui mercati mondiali?” e ancora “Come affrontare la sfida globalizzazione senza snaturare la propria impresa?”.Una prima risposta è stata tentata con la delocalizzazione produttiva (specialmente nel settore moda: dal tessile alle calzature), una formula che ha permesso di coniugare i bassi prezzi della manodopera di alcuni Paesi esteri (a cominciare dalla Romania per poi arrivare in Slovacchia, Cina ed India) con il mantenimento in Italia del cervello aziendale e delle funzioni a maggior valore aggiunto. Una scelta che si è dimostrata vincente per quegli imprenditori che, con lungimiranza, hanno saputo investire nella rete commerciale, nel marchio e nel servizio al cliente, “sacrificando” contemporaneamente nella manifattura. Purtroppo velleitaria è stata invece la scelta di quelle imprese che hanno preteso di aprire stabilimenti all’estero senza cambiare la strategia delle operations in Italia. In questo caso non hanno certo percorso la strada della crescita, ma piuttosto è stata una scelta volta a farsi strangolare dai vincoli manageriali e finanziari di una crescita forzata .
In sostanza, riteniamo che grandi e piccole imprese possano affrontare il nuovo terreno della concorrenza (e della costruzione di un percorso di crescita comune) lavorando a rete, specializzandosi in parti differenti, come hanno imparato a fare nei distretti: è questa la risposta vincente che permette di superare i vincoli manageriali che limitano la crescita dimensionale delle singole small business. La crescita passa tuttavia anche attraverso il problema finanziario: dove e come reperire le risorse in grado di supportare uno sviluppo sostenibile, in presenza di imprese dotate - generalmente - di capitali propri alquanto contenuti e dalla”paura”, da parte dell’imprenditore, di perdere la leva del comando? Si tratta di trovare soluzioni capaci di gestire finanziariamente la crescita, senza penalizzare la posizione di leadership detenuta dal proprietario.
La formula aperta all’impresa dimensionalmente limitata è quella di ricorrere al capitale di terzi: fornitori, clienti, dettaglianti della rete, attuando una sorta di “leverage finanziario” ricercato al di fuori dei canoni classici dell’indebitamento (attraverso gli istituti bancari), per orientarsi su coloro che cooperano e lavorano per il raggiungimento di obiettivi comuni.
In Italia ha fatto scuola l’approccio proposto a suo tempo da Benetton che è riuscito ad alimentare la crescita della sua impresa-rete mobilitando il capitale (e le energie) di migliaia di dettaglianti in franchising e di una miriade di subfornitori artigiani: in questo modo l’azienda leader ha la possibilità di mantenere il controllo, aggregando in rete molte piccole imprese. In tempi ancor più recenti si sono presentati altri “modelli” di finanziamento, non ultimo il management buy out, esempi concreti e sempre più diffusi di manager che diventano partner dell’impresa e lavoratori disposti ad assumere ruoli più attivi e diretti, fino ad operare in proprio in una funzione specifica. In sintesi, mentre la borsa non è, per la maggior parte delle piccole aziende italiane, un obiettivo proponibile, l’alternativa giusta è il “capital sharing”.
Infine, la crescita si trova a dover affrontare il tema dell’intelligenza professionale, che è rimasta esile e limitata. L’intelligenza dei tecnici e dei manager che, nella grande organizzazione, sta all’interno dell’azienda, in un circuito di piccole e piccolissime unità non può che stare all’esterno, prendendo la forma del cosiddetto terziario avanzato.Il fenomeno della globalizzazione ha infatti spostato le variabili del successo dall’intuizione e dalla competenza dell’imprenditore alla necessità di “comprare intelligenza” sul mercato esterno acquistando servizi consulenziali, tecnologici, formativi, informatici, commerciali, etc.
Certo, le imprese devono anche possedere, al loro interno, terminali intelligenti (più istruiti, più sensibili alle nuove tematiche) in grado di interagire con l’intelligenza esterna. Ma bisogna anche essere consapevoli che la crescita dell’intelligenza passa non tanto dagli investimenti interni di ciascuna impresa, quanto per lo sviluppo di una consistente e diversificata rete di terziario avanzato che, nelle forme del lavoro autonomo o delle piccole società di professionisti, fornisca alle imprese utilizzatrici quelle competenze di qualità che non possono crescere all’interno.
Se le imprese italiane saranno capaci di gestire il fenomeno della crescita in modo oculato, nel prossimo futuro quello delle imprese italiane sarà ancora un modello vincente.“Voi producete localmente e vendete globalmente - ha affermato Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on economic trends di Washington e autore di best seller sui destini del mondo - e questo è esattamente lo schema che si affermerà con la rivoluzione economica e tecnologica in atto a livello mondiale”.

NOTA
(1) Il tema oggetto del presente articolo è stato in precedenza affrontato sotto diversi punti di vista. Di seguito si riportano alcuni contributi pubblicati on line:- Verga D., Il sistema dei distretti: la risposta “made in Italy” alla crisi congiunturale internazionale;- Verga D., La “riscossa” delle “family company”;- Verga D., Piccolo è bello, purchè in Rete.

Giovani dirigenti, si ma più coraggiosi !

Per diventare nuova classe dirigente i giovani devono smettere di nascondersi

Renato Mannheimer ha segnalato dalle pagine del Corriere che il 50 per cento dei giovani non ha interessi per la politica, ne trae noia o disgusto. Preoccupante, un popolo d'inguaribili disimpegnati, ma attenzione, perché nel mondo sono cambiati pure il lavoro, le connotazioni derivanti dal lavoro, le categorie sociali, e questo può aiutarci ad essere ottimisti, o in ogni modo può indicarci una strada
Il mondo è cambiato, e mentre cambiava le nuove generazioni si sono addormentate o annoiate o impaurite, oppure ancora peggio. Utilizzo apposta il termine "mondo" perché è una parola totale, una definizione della realtà esistente da innamorati. Siamo figli di questi tempi, e ci hanno insegnato a non dire più certe parole, che sono scontate, formule trite e ritrite, da evitare a priori (ci hanno anche detto, più o meno esplicitamente, di pensare all’interesse particolare, ognuno al suo, di essere belli nelle forme e originali nel vestire. Di guardare all’´orticello. Hanno trasformato i contenuti seri della dimensione pubblica in pura fama inetta). E noi invece diciamo mondo. E diciamo anche mondo pubblico. Che cosa è cambiato di e in questo mondo?

La disposizione di chi, giovane, si affaccia alla vita politica, anche solo come spettatore. A questo proposito, Renato Mannheimer segnala dalle pagine del Corriere di qualche giorno fa che il 50 per cento dei giovani non ha interessi per la politica, ne trae noia o disgusto. Preoccupante, un popolo d´inguaribili disimpegnati.Ma attenzione: nel mondo sono cambiati pure il lavoro, le connotazioni derivanti dal lavoro, le categorie sociali. E questo può aiutarci ad essere ottimisti, o in ogni modo può indicarci una strada. Perché il lavoro, e le sue conseguenze, c´entrano con la politica? Perché è lì che dobbiamo subito cercare nuove attitudini all’impegno, alla consapevolezza e quindi, con qualche aiuto, alla politica.Mi spiego meglio. Con la celeberrima "flessibilità", è finita l´equazione del "sei quel che lavori". Dobbiamo pensare ad essere nel lavoro oltre il lavoro, che da solo non può più delineare il ruolo di un individuo nella relazione con il mondo: una bella sfida, che premia di sicuro e meglio la creatività, l´intraprendenza ma compromette radicalmente il rassicurante e solido senso di sé che fino ad oggi ha fatto da corazza nelle dinamiche sociali.Ed eccoci al pur flebile ottimismo. Se, infatti, da un lato, questo mondo nuovo nell’´ultimo decennio ha tolto ossigeno ai più giovani, annullando le funzioni di formazione e di crescita tipiche dei partiti (eliminando, di fatto, questi ultimi a vantaggio di fan club o di comitati elettorali permanenti, frustrando metodi e strumenti di accesso alle istituzioni), dall’´altro ha imposto nuove regole di vita personale - le regole del lavoro su tutte - tanto inevitabili quanto motivanti. Insomma: di certo maggiore angoscia ma sicuramente maggior coscienza, forte senso di responsabilità e di "essere in gioco" per chi oggi ha meno di trentacinque anni.Lavoratori oltre il lavoro, quindi, che giocano la partita su altri piani, con strumenti più umani e completi dei loro predecessori. Che non sono quel che lavorano, ma lavorano quel che sono; per sopravvivere, certo, ma anche per migliorare la qualità dei processi, dei frutti e della vita. Sul lavoro non possiamo più stare seduti, civilmente seduti a ingrassare o a indebolirci nelle nostre comode posizioni: ci è imposto di vivere nella foresta, e nella foresta si deve essere come tigri, forti, pronti, veloci, creativi e bisogna avere riflessi, idee, fiducia e coscienza per affrontare ogni passo, anche il più semplice e quotidiano.E proprio qui, tra i giovani "imprenditori di se stessi" - ormai brutta, abusata ma vera ed inevitabile definizione di una mentalità, siano essi effettivamente imprenditori innovativi o invece impiegati flessibili o professionisti senza frontiere o i mille altri volti che compongono le nostre generazioni di neolavoratori - proprio qui dobbiamo vedere gli embrioni di una nuova coscienza, di un nuovo impegno che potrebbe guardare al noi, al pubblico, alle scelte per il futuro.Sono tante le tigri nascoste nella foresta ma sono anche molte quelle stanche di nascondersi, che sperano in un richiamo. Dobbiamo trovarci in squadra, unire chi è giovane tigre nel suo mondo per progettare e gestire insieme il mondo pubblico, cioè quello comune a tutti ed estraneo a nessuno. Senza paura di parlare come innamorati, questa volta della politica.