mercoledì 7 febbraio 2007

PMI = quale sviluppo ?

La dimensione delle piccole e medie imprese italiane: come affrontare il processo di sviluppo

L’annoso problema della dimensione delle imprese italiane contrappone i fautori del “piccolo è bello” a coloro che ritengono indispensabile - nell’attuale processo di globalizzazione - accelerare il processo della crescita dimensionale. Si tratta di capire come sia possibile favorire la crescita della nostra impresa senza “snaturarne” le sue peculiarità.
Il nostro Paese è sempre stato caratterizzato da imprese con struttura dimensionale ridotta, spesso ritenuta il loro punto di forza, soprattutto in un contesto economico nel quale si è venuto progressivamente maturando il sistema dei distretti, divenuto un esempio di “cooperazione economica” anche al di fuori dei confini italiani.

La realtà nella quale si trovano attualmente ad operare le aziende italiane (a livello nazionale e, in maggior misura, quelle con spiccata vocazione internazionale) impone alle stesse la necessità di rivedere la loro strategia dimensionale, valutando con maggior attenzione le opportunità offerte da dimensioni più ampie, opportunità purtroppo compressa e penalizzata da numerosi vincoli ed ostacoli, sia interni che istituzionali (1).Il problema si presenta purtroppo in modo “strutturale”, nel senso che - spesso - le strategie di crescita devono fare i conti con l’impostazione verticale di un’impresa familiare che vuole rimanere tale. In altre parole, il processo di crescita dimensionale - in molte realtà economiche italiane - richiederebbe di affiancare all’imprenditore un “nuovo” team di esperti e professionisti capaci di colmare i suoi naturali “gap” in campo finanziario, economico ed aziendale. Si tratta di un problema di non poco conto, ma lo scenario delle nostre imprese è comunque meno oscuro e complesso di quanto possa sembrare da queste prime osservazioni.
In primo luogo, si deve considerare che in Italia alcune imprese sono di piccola dimensione in quanto trattasi di giovani imprese, da poco costituite e pertanto di dimensioni ridotte non per scelta, ma per “età”. Inoltre, come anticipato, il modello di produzione industriale a rete basato sui distretti (nel quale convergono molte imprese di piccole dimensioni con vocazione all’internazionalizzazione) si sta rivelando uno schema quanto mai moderno ed appetibile. E questo è un bene o per lo meno una potenziale risorsa nella competizione internazionale, in quanto le piccole imprese non vanno più considerate singolarmente ed isolatamente, ma insieme al sistema del quale fanno parte ed all’interno del quale la piccola dimensione è di supporto alla grande e viceversa, autoalimentandosi a vicenda.
Se sono ormai maturi i tempi per abbandonare la discussione e la contrapposizione tra grande e piccolo, il nodo del problema è allora - ancora una volta - quello della crescita. Si tratta di vedere come sia possibile far “crescere” le capacità di azione delle piccole imprese senza “forzare la mano” e precorrere troppo i tempi, onde evitare “brusche frenate” in corso d’opera: si tratta, cioè, di tracciare un percorso di crescita che sia effettivamente sostenibile. Bisogna poter fornire la risposta alla domanda “Come possono le piccole e medie imprese del made in Italy rimanere flessibili e continuare a competere sui mercati mondiali?” e ancora “Come affrontare la sfida globalizzazione senza snaturare la propria impresa?”.Una prima risposta è stata tentata con la delocalizzazione produttiva (specialmente nel settore moda: dal tessile alle calzature), una formula che ha permesso di coniugare i bassi prezzi della manodopera di alcuni Paesi esteri (a cominciare dalla Romania per poi arrivare in Slovacchia, Cina ed India) con il mantenimento in Italia del cervello aziendale e delle funzioni a maggior valore aggiunto. Una scelta che si è dimostrata vincente per quegli imprenditori che, con lungimiranza, hanno saputo investire nella rete commerciale, nel marchio e nel servizio al cliente, “sacrificando” contemporaneamente nella manifattura. Purtroppo velleitaria è stata invece la scelta di quelle imprese che hanno preteso di aprire stabilimenti all’estero senza cambiare la strategia delle operations in Italia. In questo caso non hanno certo percorso la strada della crescita, ma piuttosto è stata una scelta volta a farsi strangolare dai vincoli manageriali e finanziari di una crescita forzata .
In sostanza, riteniamo che grandi e piccole imprese possano affrontare il nuovo terreno della concorrenza (e della costruzione di un percorso di crescita comune) lavorando a rete, specializzandosi in parti differenti, come hanno imparato a fare nei distretti: è questa la risposta vincente che permette di superare i vincoli manageriali che limitano la crescita dimensionale delle singole small business. La crescita passa tuttavia anche attraverso il problema finanziario: dove e come reperire le risorse in grado di supportare uno sviluppo sostenibile, in presenza di imprese dotate - generalmente - di capitali propri alquanto contenuti e dalla”paura”, da parte dell’imprenditore, di perdere la leva del comando? Si tratta di trovare soluzioni capaci di gestire finanziariamente la crescita, senza penalizzare la posizione di leadership detenuta dal proprietario.
La formula aperta all’impresa dimensionalmente limitata è quella di ricorrere al capitale di terzi: fornitori, clienti, dettaglianti della rete, attuando una sorta di “leverage finanziario” ricercato al di fuori dei canoni classici dell’indebitamento (attraverso gli istituti bancari), per orientarsi su coloro che cooperano e lavorano per il raggiungimento di obiettivi comuni.
In Italia ha fatto scuola l’approccio proposto a suo tempo da Benetton che è riuscito ad alimentare la crescita della sua impresa-rete mobilitando il capitale (e le energie) di migliaia di dettaglianti in franchising e di una miriade di subfornitori artigiani: in questo modo l’azienda leader ha la possibilità di mantenere il controllo, aggregando in rete molte piccole imprese. In tempi ancor più recenti si sono presentati altri “modelli” di finanziamento, non ultimo il management buy out, esempi concreti e sempre più diffusi di manager che diventano partner dell’impresa e lavoratori disposti ad assumere ruoli più attivi e diretti, fino ad operare in proprio in una funzione specifica. In sintesi, mentre la borsa non è, per la maggior parte delle piccole aziende italiane, un obiettivo proponibile, l’alternativa giusta è il “capital sharing”.
Infine, la crescita si trova a dover affrontare il tema dell’intelligenza professionale, che è rimasta esile e limitata. L’intelligenza dei tecnici e dei manager che, nella grande organizzazione, sta all’interno dell’azienda, in un circuito di piccole e piccolissime unità non può che stare all’esterno, prendendo la forma del cosiddetto terziario avanzato.Il fenomeno della globalizzazione ha infatti spostato le variabili del successo dall’intuizione e dalla competenza dell’imprenditore alla necessità di “comprare intelligenza” sul mercato esterno acquistando servizi consulenziali, tecnologici, formativi, informatici, commerciali, etc.
Certo, le imprese devono anche possedere, al loro interno, terminali intelligenti (più istruiti, più sensibili alle nuove tematiche) in grado di interagire con l’intelligenza esterna. Ma bisogna anche essere consapevoli che la crescita dell’intelligenza passa non tanto dagli investimenti interni di ciascuna impresa, quanto per lo sviluppo di una consistente e diversificata rete di terziario avanzato che, nelle forme del lavoro autonomo o delle piccole società di professionisti, fornisca alle imprese utilizzatrici quelle competenze di qualità che non possono crescere all’interno.
Se le imprese italiane saranno capaci di gestire il fenomeno della crescita in modo oculato, nel prossimo futuro quello delle imprese italiane sarà ancora un modello vincente.“Voi producete localmente e vendete globalmente - ha affermato Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on economic trends di Washington e autore di best seller sui destini del mondo - e questo è esattamente lo schema che si affermerà con la rivoluzione economica e tecnologica in atto a livello mondiale”.

NOTA
(1) Il tema oggetto del presente articolo è stato in precedenza affrontato sotto diversi punti di vista. Di seguito si riportano alcuni contributi pubblicati on line:- Verga D., Il sistema dei distretti: la risposta “made in Italy” alla crisi congiunturale internazionale;- Verga D., La “riscossa” delle “family company”;- Verga D., Piccolo è bello, purchè in Rete.

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