giovedì 30 dicembre 2010

Fiat, i punti dell’accordo per Pomigliano

Fa notizia leggere che la riforma del lavoro parte da un’azienda privata anziché dal Parlamento. Inusuale per un’Italia dove il potere politico è talmente assuefatto a non prendere decisioni impopolari per non perdere voti da essere connivente con la perdita di competitività e quindi di posti di lavoro. Non ne fa invece leggere che la FIOM proclama scioperi contro l’accordo. Prosegue sulla vecchia linea del “contro il padrone” che gli aveva procurato tante tessere nel passato e cavalcando il malcontento, figlio di una crisi economico-finanziaria provocata dalle banche ma che evidentemente questa sigla, oramai solo politica, finge di ignorare. La globalizzazione avvenuta di fatto non ha neanche sfiorato la cultura di questi sindacalisti che restano chiusi all’interno di un sistema oramai superato, bene o male che sia, ma con il quale il mondo del lavoro deve confrontarsi.

E’ assolutamente corretto confrontarsi con la parte datoriale per ottenere contratti in grado di tutelare i prestatori d’opera, in quanto persone inserite in un mondo moderno, i loro diritti universalmente riconosciuti ma senza dimenticare i loro doveri.
Purtroppo per molti anni, forse decenni, il diritto al lavoro sancito dai principi costituzionali, è stato portato (da tutti) a divenire il diritto allo stipendio con contropartite rivelatesi inadeguate e pericolose. Sarebbe ovviamente auspicabile per tutti il massimo reddito con il minimo impegno o sacrificio, ma forse siamo andati oltre il limite delle nostre possibilità economiche. Errore di chi ha preteso e di chi ha facilmente concesso, ma sempre di errore si è trattato anche se visto a posteriori è facile da criticare. Ma sull’esperienza che il “troppo benessere per tutti” si paga, prima o poi, perché non prenderne atto e cercare un nuovo equilibrio? Le risposte ci sarebbero ma sostanzialmente si è preferito lasciare il cerino acceso in mano agli altri. Né politici né sindacati politicanti hanno avuto interesse ad impegnarsi riservandosi il diritto a commentare l’operato altrui. Non sarà stato fatto il meglio ma sembra di rivedere le critiche alla legge Gelmini sulla riforma universitaria, cioè cambiare ma salvaguardando lo status quo.
Di seguito la sintesi dell’accordo:
Investimento da 720 milioni di euro e 4.600 assunzioni. In cambio pause ridotte, nuove regole per la malattia e limiti al diritto di sciopero
Fim, Uilm, Ugl metalmeccanici, Fismic, l'Associazione dei quadri Fiat e Fiat hanno firmato il nuovo contratto di lavoro per i 4.600 dipendenti dello stabilimento di Pomigliano, che a partire da gennaio verranno riassunti dalla Newco, sulla base dell'accordo di giugno che sblocca investimenti per 700 milioni per la produzione della nuova Panda.

Vediamo quali sono i punti principali dell’accordo.
- E’ previsto un investimento di 720 milioni, destinato alla produzione della nuova Panda.
- Saranno riassunti 4.600 lavoratori diretti, dall’indotto dovrebbe arrivare un posto di lavoro per almeno altri 10mila lavoratori.
- L’accordo esce dal sistema contrattuale previsto dalla Confindustria.
- La maggiorazione dello stipendio prevista è pari a 360 euro lordi all’anno – ovvero 20 netti al mese in busta paga -.
- Per quanto riguarda l’inquadramento si passa da 7 a 5 livelli, con fasce al loro interno e revisione organizzativa pure della fasce più alte. Previsto il Tfr e cinque scatti di anzianità, il maturato è conservato.
- I lavoratori sono riassunti da Fabbrica Italia Pomigliano. Con la firma del contratto di assunzione, il lavoratore si impegna a rispettare l’accordo. Nel caso di violazioni sono previste sanzioni fino al licenziamento.
- Hanno diritto di rappresentanza solo i sindacati firmatari dell’accordo. Niente diritti dunque per Fiom e Slai-Cobas. L’Assoquadri Fiat invece avrà delegati.
- L’organizzazione del lavoro è basata su 18 turni settimanali. L’utilizzo degli impianti si sviluppa su 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana. Un operaio lavorerà una settimana per sei giorni, un’altra per quattro.
- Le pause in catena di montaggio sono ridotte da 40 a 30 minuti. La pausa mensa spostata a fine turno.
- Nel caso di picchi di assenze per malattia collegati a scioperi, manifestazioni o “messa in libertà” per cause di forza maggiore, l’azienda si riserva di non pagare i primi tre giorni.
- Sono previste sanzioni per il mancato rispetto dell’accordo anche per le organizzazioni sindacali.
- Sciopero: non può essere proclamato nei casi in cui l’azienda ha comandato lo straordinario per motivi di avviamento, recuperi produttivi e punte di mercato.



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mercoledì 22 dicembre 2010

Il rimborso dell'IVA pagata sulla tariffa dei rifiuti sta avviandosi ad un grande flop!

Notizia per tutti coloro che hanno richiesto il rimborso dell'Iva pagata sulla tassa rifiuti, in rispetto di una sentenza della Corte Costituzionale del 2009.
Per mesi il Governo non ha preso alcuna decisione definitiva, fino a quando, con una circolare del dipartimento delle Finanze, non ha stabilito che la Tia è di fatto una tariffa, e come tale "richiede" l'Iva. Dunque in contrasto con la sentenza della Consulta. E anche con il parere della Corte dei Conti del Piemonte (la numero 65/2010), che invece afferma che la Tia è un'entrata tributaria, quindi esente da Iva.
La situazione è dunque confusa, e alla luce di questi continui pareri contrastanti, senza una presa di posizione chiara, il cittadino resta “beffato”, come al solito. Infatti molti Comuni virtuosi non hanno applicato l’IVA sulla tassa rifiuti e se neppure gli organi istituzionali riescono a capire e sapere quello che fanno, potremmo ritrovarci non solo al danno ma anche alla beffa. Cioè, se fosse definitivamente accertato che si tratti di tariffa allora ci ritroveremmo che decine di migliaia di Comuni che l’hanno applicata come tributo, invierebbero cartelle di pagamento a conguaglio, magari arretrate, per l’incasso dell’IVA non precedentemente pagata.
Se questa malaugurata ipotesi dovesse balenare in testa ai voraci funzionari dell’Agenzia delle Entrate, sarebbe stata inventata una nuova imposizione fiscale a tutto beneficio di quello Stato sprecone che finora non ha voluto tagliare i costi della politica perché avrebbe toccato i propri interessi e benefici personali ma che non esiterebbe un istante a gravare ancora di più sui cittadini.
Se invece tutto andrà come in Italia ben sappiamo, allora ci saranno ricorsi, controricorsi, commissioni di controllo, commissioni giudicanti, pareri della Corte Europea per andare poi ad un trasferimento dei fatti nel grande contenitore dell’oblio. Così avremo speso una montagna di denaro pubblico, cioè il nostro, per arricchire avvocati, giudici e consulenti che non ci faranno certo mancare dotte elucubrazioni, magari tecnicamente perfette, per farci prendere atto della beffa.
Sarà tale anche perché se, fra una decina d’anni, avremo perso, allora per molti ci sarà da pagare e se avremo vinto avranno già modificato le norme per non rimborsare niente a nessuno oppure potremo trattenere gli importi a credito dalla dichiarazione dei redditi allegando fatture, attestazioni certificate di pagamento, domande in carta da bollo e, ovviamente, con procedure tali da dover richiedere l’intervento di un commercialista. In sintesi, tali da scoraggiare qualunque persona di buon senso, dal farlo.
Una volta si diceva che la burocrazia italiana era una eredità borbonica da superare, oggi possiamo affermare che, grazie alla semplificazione dei comportamenti dello Stato, abbiamo di che fare invidia ai Borboni!

martedì 21 dicembre 2010

Riprendono gli incontri dei Direttori delle Risorse Umane – VII Forum

La sede del primo incontro del 2011 sarà, per molti versi insolita. In fatti l’azienda che promuove questo incontro è la Bulgari Gioielli S.p.A., marchio prestigioso in tutto il mondo, e la location quella di una sua unità produttiva a Solonghello in provincia di Alessandria, piuttosto che nella sede di Valenza Po.

L’incontro verterà sul tema introdotto dai dirigenti di Bulgari :

" Il caso Bulgari - Vivere il cambiamento: supportare un'azienda che cresce in una realtà che cambia" Ascoltando l'esperienza di chi lo ha vissuto e confrontandoci con la nostra


La data fissata è quella di venerdì 21 gennaio 2011 alle ore 14,30.
Come è oramai consuetudine il meeting sarà preceduto dalla presentazione dell’azienda ospitante e dalla visita all’area produttiva che si preannuncia di tutto interesse data la particolarità degli aspetti produttivi.
Numerosi Direttori delle Risorse Umane delle più importanti aziende delle province di Alessandria ed Asti, hanno preannunciato la loro presenza

mercoledì 15 dicembre 2010

Sono tassabili i proventi della prostituzione

Riprendo da “Il Sole 24 ore” che la Corte di Cassazione (sentenza n.42160) ha sancito che i proventi derivanti dallo sfruttamento della prostituzione sono tassabili e che il compenso lasciato dagli sfruttatori alle ragazze è un “costo” indeducibile.
Ho impiegato alcuni giorni per cercare di gestire la mia reazione emotiva di sconcerto.
Sono un manager di “lungo corso” e quindi ho imparato a trattenere reazioni di questo tipo per dare spazio all’analisi ed al ragionamento. In effetti, ragionando con criteri fiscali, un reddito ed un costo sono tali in qualunque situazione di conto economico. Questa è “tecnica”, ma la domanda che mi pongo è se sia comprensibile che il fattore umano passi in secondo piano. Cerco di spiegarmi.
Io non obietto dal punto di vista morale, se la scelta della persona nel prostituirsi sia da giudicare negativamente o meno, purché essa non vi sia costretta da terzi e quindi libera di confrontarsi con la propria morale o con la propria fede.
In questo caso credo che si debba parlare di messa in schiavitù e tale da essere considerata tra i reati più gravi che possano esistere dopo quelli dell’omicidio volontario e della violenza sui minori.
Non troverei certamente eccepibile che siano regolarmente tassati i proventi del meretricio purché, e lo ripeto, sia svolto in piena libertà e autodeterminazione, ma non riesco ad accettare che la valutazione “tecnica” sui proventi dallo sfruttamento sessuale di una persona possa divenire argomento da inquadrare nelle normative fiscali. Premesso che la materia fiscale sia laica, faccio fatica a comprendere come i giudici della Corte, che sono persone ed anche di levatura culturale elevata, non abbiano respinto la richiesta di giudizio come immotivata ed inaccettabile e facendo così prevalere il principio che ogni profitto derivante da reato va restituito alla persona che lo a subito. Solo dopo questo fatto si potrà allora parlare della dovuta tassazione del reddito del percipiente. Mi direte voi, ma come si può stabilire in che misura restituirlo tra coloro che lo hanno prodotto dato che può trattarsi di persone diverse ed in un arco di tempo indefinibile? In effetti, il “problema” esisterebbe, ma lo considererei superabile sequestrando gli importi e destinandoli alla sovvenzione dei centri di recupero delle persone oggetto di sfruttamento sessuale.
Ritengo inaccettabile che il fisco debba percepire, ma anche solo ipotizzare di ricevere, una quota derivante dalla messa in schiavitù, oltretutto sessuale, di una persona.
Siamo stati abituati da una società materialista e da falsi “status symbols” alla identificazione dei valori nel denaro e nel potere, come pure ci preoccupa, anche se contingente, la crisi economico finanziaria; ma credo che guardando in alto verso coloro che nelle istituzioni rappresentano i nostri punti di riferimento, dovremmo poter vedere la persona umana al centro delle valutazioni e delle normative. Utopia? Non credo, ma decadentismo e spersonalizzazione dalla realtà.
Siamo vicini al Natale e, che per chi ha fede, si tratta di un momento di rinnovo del messaggio della speranza in una vita serena e di pace che guarda alla persona ed attraverso di lei alla società. Auguriamoci che la riflessione sia per tutti, anche per chi addobba l’albero e costruisce un Presepe ma non sa più perché lo stia facendo.

lunedì 6 dicembre 2010

L'Università della conservazione

L'UNIVERSITÀ DELLA CONSERVAZIONE
di Marino Regini 03.12.2010

Introdurre elementi di competizione fra gli atenei, distribuire una parte delle risorse in base al merito, sottrarre potere alle corporazioni: sugli obiettivi della riforma dell'università esisteva fino a poco tempo fa un consenso molto ampio. Che sembra ora evaporare via via che l'attenzione si sposta sull'inadeguatezza o la contraddittorietà degli strumenti individuati per realizzarla e le parole d'ordine si fanno sempre più ideologiche. Se la riforma non sarà approvata, i propositi di modernizzazione saranno abbandonati e prevarrà la conservazione dello status quo.

Nel loro articolo “L’università dell’incertezza” su lavoce.info del 26 novembre, dopo avere richiamato diversi elementi negativi dell’attuale politica del governo nei confronti dell’università, Daniele Checchi e Tullio Jappelli pongono la domanda retorica “se questo sia il contesto adeguato per introdurre riforme strutturali della portata di quelle proposte” dal disegno di legge Gelmini, nel frattempo approvato dalla Camera il 30 novembre.
Solitamente gli economisti discutono gli obiettivi delle politiche e la congruità degli strumenti per conseguirli. Se invece non citano neppure gli obiettivi, ma discutono solo il contesto in cui si inseriscono (rubando, si potrebbe dire con una battuta, il mestiere a politologi e sociologi), c’è qualcosa che non quadra, come in gran parte del dibattito recente sulla riforma universitaria.
.OBIETTIVI DELLA RIFORMA E RISORSE IN CAMPO

Un’analisi non aprioristica della riforma dovrebbe distinguere fra tre aspetti: a) gli obiettivi e i principi a cui si ispira; b) gli strumenti e le risorse che vengono messi in gioco; c) le conseguenze dell’approvazione o della mancata approvazione.
In sintesi, possiamo dire che sul primo aspetto vi è stata per lungo tempo una sostanziale convergenza di pareri positivi, di governo e opposizione ma anche delle università e del mondo delle imprese, così come della maggior parte dei commentatori. Sul secondo aspetto, invece, il governo è stato incalzato da un fronte anch’esso molto ampio di critiche agli strumenti previsti e all’insufficienza delle risorse messe in gioco. Mentre il terzo punto non ha ricevuto la dovuta attenzione.
Gli obiettivi generali della riforma erano quelli di introdurre meccanismi meritocratici e di reale competizione sia fra le università sia nel reclutamento, di evitare i conflitti di interesse che si creano quando la decisione sulla ripartizione delle risorse è demandata a organi composti da chi utilizza le risorse stesse, di consentire una differenziazione interna del sistema universitario per rispondere meglio alla domanda sociale. Tutti obiettivi comuni, va ricordato, ai processi di riforma già avvenuti negli altri paesi avanzati.
Gli strumenti e le risorse indicati dal governo sono adeguati al raggiungimento di questi obiettivi? Certamente no, e su questo le critiche provenienti da molti settori del mondo universitario, ma anche dalla politica e da molti commentatori, sono largamente condivisibili. Non si tratta solo della (peraltro cronica) inadeguatezza delle risorse finanziarie, ma anche dei ritardi nella valutazione, di un impianto normativo del Ddl che si basa sull’autonomia delle università, ma la mortifica in un quadro di vincoli burocratici eccessivi, della denigrazione dei nostri atenei che ha preceduto e accompagnato l’iter parlamentare quasi a giustificare l’esigenza di una riforma, e di molti altri aspetti che hanno finito con il togliere legittimità al disegno di legge e con l’offrire spunti alle proteste di piazza e all’intransigenza dell’opposizione.
Alcuni commentatori (come Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 30 novembre) hanno sottolineato la bontà degli obiettivi, trascurando il problema degli strumenti e delle risorse, mentre la maggior parte ha fatto il contrario. Via via che la protesta cresceva e l’opposizione si radicalizzava, sempre più forte si è fatta la voce di chi ne sposa le ragioni enfatizzando gli elementi critici della riforma.

IL CONSENSO PERDUTO

Ma qui diventa rilevante, anzi cruciale, il terzo aspetto, quello trascurato da tutti o quasi (se lo è posto Michele Salvati sul Corriere della Sera dell’1 dicembre): quali le conseguenze di una mancata approvazione del Ddl nell’altro ramo del Parlamento? Ci sarebbero in futuro, magari con un altro governo e con una maggiore condivisione delle proposte, le condizioni per approvare una legge migliore, capace di riproporre gli stessi obiettivi di premiare il merito e la competitività nelle università mediante la valutazione, di superare i conflitti di interesse coinvolgendo nelle decisioni i rappresentanti della società, ma potendo contare su strumenti meno contraddittori e su risorse più adeguate? Oppure ci si dovrebbe rassegnare, unici in Europa, all’abbandono di quegli obiettivi di modernizzazione e di fatto alla conservazione dello status quo, con tutti i guasti che conosciamo?
Ci sono almeno tre elementi che fanno propendere per la seconda alternativa. In ordine crescente di importanza, il primo è che il consenso su quegli obiettivi, molto ampio fino a poco tempo fa, sembra evaporare via via che l’attenzione si sposta sull’inadeguatezza o la contraddittorietà degli strumenti. Il già citato articolo di Checchi e Jappelli, che non dice mai “anche se non possono essere raggiunti in questo modo, gli obiettivi della riforma erano giusti”, è un piccolo indicatore di una tendenza molto più generale, che si rispecchia nel mutamento di enfasi e addirittura di linguaggio negli interventi recenti di molti riformatori della prima ora.
Il secondo elemento sono gli slogan che hanno finito con il prevalere nella protesta dei ricercatori e poi degli studenti: iniziata con sacrosante richieste di investire sulla ricerca e sul futuro, è stata sempre più dirottata su parole d’ordine ideologiche quanto prive di fondamento, quali la lotta contro la privatizzazione dell’università (che sarebbe implicita nell’apertura dei cda ad alcuni rappresentanti esterni), o contro la precarizzazione (che sarebbe insita nel sistema di tenure track, che in tutto il mondo consente di verificare il merito prima di trasformare il reclutamento in un ruolo a vita).
Il clima culturale in cui dovrebbe ripartire il dibattito sulla riforma sarebbe dunque pesantemente condizionato da questi mutamenti nei valori e negli orizzonti in cui si muovono alcuni dei protagonisti e degli opinion leader. Il progressivo deteriorarsi della discussione, la logica di schieramento o di bottega che ha finito con il prevalere sul ragionamento pacato, fa prevedere che ci sarebbe una facile vittoria della palude della conservazione.
Il terzo e decisivo elemento è l’evidente smottamento della precedente unità, fosse questa convinta o di facciata, fra i rettori e quindi fra le università italiane a sostegno del Ddl. D’altronde, una riforma che intende introdurre elementi di competizione fra gli atenei, distribuire una parte delle risorse in base al merito, sottrarre potere alle corporazioni accademiche affidandolo a rappresentanti della società, non può andare bene sia alle università virtuose che a quelle meno competitive, ai settori fortemente innovatori come a quelli più conservatori. In una fase in cui le università erano costantemente denigrate dai media, in cui la riforma si presentava come moralizzazione di un sistema inefficiente e malato, il riflesso condizionato è stato di sostenere compattamente la riforma per mostrare di voler fare la propria parte. Il “metodo Boffo applicato all’università”, come lo definisce Guido Martinetti, è stato odioso ma ha funzionato. Ma via via che il fuoco, amico o nemico, si è concentrato sui limiti, le contraddizioni, gli errori del Ddl, le università e le corporazioni meno pronte alla competizione, quelle che rischierebbero di più, si sono smarcate e hanno cominciato apertamente a “remare contro”. Salvo che non ci si auguri una ripresa del “metodo Boffo”, è ben difficile immaginare che l’unità di posizioni fra gli atenei italiani possa essere recuperata. Certo, il favorire e l’esplicitare una differenziazione interna può essere positivo per il sistema, ma ci sono forze politiche che avrebbero il coraggio di assumerlo come obiettivo e di pagarne i relativi costi?
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