lunedì 6 dicembre 2010

L'Università della conservazione

L'UNIVERSITÀ DELLA CONSERVAZIONE
di Marino Regini 03.12.2010

Introdurre elementi di competizione fra gli atenei, distribuire una parte delle risorse in base al merito, sottrarre potere alle corporazioni: sugli obiettivi della riforma dell'università esisteva fino a poco tempo fa un consenso molto ampio. Che sembra ora evaporare via via che l'attenzione si sposta sull'inadeguatezza o la contraddittorietà degli strumenti individuati per realizzarla e le parole d'ordine si fanno sempre più ideologiche. Se la riforma non sarà approvata, i propositi di modernizzazione saranno abbandonati e prevarrà la conservazione dello status quo.

Nel loro articolo “L’università dell’incertezza” su lavoce.info del 26 novembre, dopo avere richiamato diversi elementi negativi dell’attuale politica del governo nei confronti dell’università, Daniele Checchi e Tullio Jappelli pongono la domanda retorica “se questo sia il contesto adeguato per introdurre riforme strutturali della portata di quelle proposte” dal disegno di legge Gelmini, nel frattempo approvato dalla Camera il 30 novembre.
Solitamente gli economisti discutono gli obiettivi delle politiche e la congruità degli strumenti per conseguirli. Se invece non citano neppure gli obiettivi, ma discutono solo il contesto in cui si inseriscono (rubando, si potrebbe dire con una battuta, il mestiere a politologi e sociologi), c’è qualcosa che non quadra, come in gran parte del dibattito recente sulla riforma universitaria.
.OBIETTIVI DELLA RIFORMA E RISORSE IN CAMPO

Un’analisi non aprioristica della riforma dovrebbe distinguere fra tre aspetti: a) gli obiettivi e i principi a cui si ispira; b) gli strumenti e le risorse che vengono messi in gioco; c) le conseguenze dell’approvazione o della mancata approvazione.
In sintesi, possiamo dire che sul primo aspetto vi è stata per lungo tempo una sostanziale convergenza di pareri positivi, di governo e opposizione ma anche delle università e del mondo delle imprese, così come della maggior parte dei commentatori. Sul secondo aspetto, invece, il governo è stato incalzato da un fronte anch’esso molto ampio di critiche agli strumenti previsti e all’insufficienza delle risorse messe in gioco. Mentre il terzo punto non ha ricevuto la dovuta attenzione.
Gli obiettivi generali della riforma erano quelli di introdurre meccanismi meritocratici e di reale competizione sia fra le università sia nel reclutamento, di evitare i conflitti di interesse che si creano quando la decisione sulla ripartizione delle risorse è demandata a organi composti da chi utilizza le risorse stesse, di consentire una differenziazione interna del sistema universitario per rispondere meglio alla domanda sociale. Tutti obiettivi comuni, va ricordato, ai processi di riforma già avvenuti negli altri paesi avanzati.
Gli strumenti e le risorse indicati dal governo sono adeguati al raggiungimento di questi obiettivi? Certamente no, e su questo le critiche provenienti da molti settori del mondo universitario, ma anche dalla politica e da molti commentatori, sono largamente condivisibili. Non si tratta solo della (peraltro cronica) inadeguatezza delle risorse finanziarie, ma anche dei ritardi nella valutazione, di un impianto normativo del Ddl che si basa sull’autonomia delle università, ma la mortifica in un quadro di vincoli burocratici eccessivi, della denigrazione dei nostri atenei che ha preceduto e accompagnato l’iter parlamentare quasi a giustificare l’esigenza di una riforma, e di molti altri aspetti che hanno finito con il togliere legittimità al disegno di legge e con l’offrire spunti alle proteste di piazza e all’intransigenza dell’opposizione.
Alcuni commentatori (come Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 30 novembre) hanno sottolineato la bontà degli obiettivi, trascurando il problema degli strumenti e delle risorse, mentre la maggior parte ha fatto il contrario. Via via che la protesta cresceva e l’opposizione si radicalizzava, sempre più forte si è fatta la voce di chi ne sposa le ragioni enfatizzando gli elementi critici della riforma.

IL CONSENSO PERDUTO

Ma qui diventa rilevante, anzi cruciale, il terzo aspetto, quello trascurato da tutti o quasi (se lo è posto Michele Salvati sul Corriere della Sera dell’1 dicembre): quali le conseguenze di una mancata approvazione del Ddl nell’altro ramo del Parlamento? Ci sarebbero in futuro, magari con un altro governo e con una maggiore condivisione delle proposte, le condizioni per approvare una legge migliore, capace di riproporre gli stessi obiettivi di premiare il merito e la competitività nelle università mediante la valutazione, di superare i conflitti di interesse coinvolgendo nelle decisioni i rappresentanti della società, ma potendo contare su strumenti meno contraddittori e su risorse più adeguate? Oppure ci si dovrebbe rassegnare, unici in Europa, all’abbandono di quegli obiettivi di modernizzazione e di fatto alla conservazione dello status quo, con tutti i guasti che conosciamo?
Ci sono almeno tre elementi che fanno propendere per la seconda alternativa. In ordine crescente di importanza, il primo è che il consenso su quegli obiettivi, molto ampio fino a poco tempo fa, sembra evaporare via via che l’attenzione si sposta sull’inadeguatezza o la contraddittorietà degli strumenti. Il già citato articolo di Checchi e Jappelli, che non dice mai “anche se non possono essere raggiunti in questo modo, gli obiettivi della riforma erano giusti”, è un piccolo indicatore di una tendenza molto più generale, che si rispecchia nel mutamento di enfasi e addirittura di linguaggio negli interventi recenti di molti riformatori della prima ora.
Il secondo elemento sono gli slogan che hanno finito con il prevalere nella protesta dei ricercatori e poi degli studenti: iniziata con sacrosante richieste di investire sulla ricerca e sul futuro, è stata sempre più dirottata su parole d’ordine ideologiche quanto prive di fondamento, quali la lotta contro la privatizzazione dell’università (che sarebbe implicita nell’apertura dei cda ad alcuni rappresentanti esterni), o contro la precarizzazione (che sarebbe insita nel sistema di tenure track, che in tutto il mondo consente di verificare il merito prima di trasformare il reclutamento in un ruolo a vita).
Il clima culturale in cui dovrebbe ripartire il dibattito sulla riforma sarebbe dunque pesantemente condizionato da questi mutamenti nei valori e negli orizzonti in cui si muovono alcuni dei protagonisti e degli opinion leader. Il progressivo deteriorarsi della discussione, la logica di schieramento o di bottega che ha finito con il prevalere sul ragionamento pacato, fa prevedere che ci sarebbe una facile vittoria della palude della conservazione.
Il terzo e decisivo elemento è l’evidente smottamento della precedente unità, fosse questa convinta o di facciata, fra i rettori e quindi fra le università italiane a sostegno del Ddl. D’altronde, una riforma che intende introdurre elementi di competizione fra gli atenei, distribuire una parte delle risorse in base al merito, sottrarre potere alle corporazioni accademiche affidandolo a rappresentanti della società, non può andare bene sia alle università virtuose che a quelle meno competitive, ai settori fortemente innovatori come a quelli più conservatori. In una fase in cui le università erano costantemente denigrate dai media, in cui la riforma si presentava come moralizzazione di un sistema inefficiente e malato, il riflesso condizionato è stato di sostenere compattamente la riforma per mostrare di voler fare la propria parte. Il “metodo Boffo applicato all’università”, come lo definisce Guido Martinetti, è stato odioso ma ha funzionato. Ma via via che il fuoco, amico o nemico, si è concentrato sui limiti, le contraddizioni, gli errori del Ddl, le università e le corporazioni meno pronte alla competizione, quelle che rischierebbero di più, si sono smarcate e hanno cominciato apertamente a “remare contro”. Salvo che non ci si auguri una ripresa del “metodo Boffo”, è ben difficile immaginare che l’unità di posizioni fra gli atenei italiani possa essere recuperata. Certo, il favorire e l’esplicitare una differenziazione interna può essere positivo per il sistema, ma ci sono forze politiche che avrebbero il coraggio di assumerlo come obiettivo e di pagarne i relativi costi?
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