venerdì 6 agosto 2010

Il percorso che va oltre la crisi

Nel 2009 il paese ha perso 7 punti di PIL rispetto all’anno precedente, oltre 700 mila posti di lavoro, la produzione industriale è crollata del 25%, per cui siamo ritornati ai livelli del 1985.
Sul piano politico istituzionale si evidenzia drammaticamente l’incapacità di ridurre la spesa pubblica che è anche peggiorata (si spende troppo e male), con la conseguenza che il costo dell’energia, trasporti e dei servizi costituisce una “palla al piede” per la nostra capacità produttiva.

In questo contesto le aziende hanno dovuto imparare a proprie spese la sfida dell’internazionalizzazione: una storia fatta di lunghi viaggi, di attese estenuanti, qualche stretta di mano, colossali delusioni, ma anche grandi successi. Hanno imparato sicuramente una cosa: che per competere all’estero non è più sufficiente lo spirito dei pionieri e a complicare ulteriormente le cose è arrivata la crisi.
Il rapporto del Gruppo congiunto Giovani Imprenditori di Confindustria e Giovani dirigenti di Federmanager dell’aprile 2010 avente per oggetto la ricerca “Internazionalizzare il governo dell’impresa”, evidenzia che la chiave per vincere la sfida dell’internazionalizzazione e del “dopo crisi” sarà ancora una volta nelle persone, perchè si possono clonare i prodotti di eccellenza e di successo, raggiungere buoni standard di qualità, ecc., ma non riprodurre valori intangibili come l’intuito, l’inventiva, il gusto del bello che sono il nostro retaggio e che aiutano a formare quella cultura d’impresa che accomuna imprenditori e dirigenti.
Le “multinazionali tascabili”, come le ha definite a suo tempo il Censis, sono una conseguenza lampante e, ancora oggi esercitano un ruolo importante nel nostro tessuto produttivo per la loro capacità di penetrare i mercati esteri.

L’avvio della crisi ha posto problemi di riposizionamento delle imprese ed in particolare della qualità delle risorse umane che le governano (impiegati e dirigenti) con l’effetto del graduale spostamento dell’ottica dalla dimensione locale o nazionale a quella internazionale, non solo per i mercati di sbocco, ma anche per il quadro di riferimento dei fornitori, di provenienza delle materie prime, delle risorse finanziarie. Se si opera in questa direzione si potrà non solo attraversare la crisi per sopravvivere, ma avviare un altro ciclo di sviluppo.

Le difficoltà che il lavoro del Gruppo, coordinato da Nadio Delai, evidenzia sono: la scarsa famigliarità con le lingue straniere e, parallelamente, le modeste esperienze maturate all’estero; la difficoltà a lunghe permanenze in ambienti molto diversi da quelli del nostro paese da parte dei dirigenti, nonchè gli elevati costi che l’azienda deve sostenere.
Le proposte e i suggerimenti avanzati sono la cura di processi di motivazione del personale, che, prima ancora della formazione, puntino al coinvolgimento attivo e motivato del dipendente e della sua famiglia (che in un modo o nell’altro ne risulterà coinvolta). Paradossalmente il livello di consenso più ampio si è avuto dai giovani manager, rispetto ai giovani imprenditori.

Viceversa, l’alternativa potrebbe essere di puntare su figure provenienti dall’esterno dell’azienda, più dinamici e disponibili a questo processo di internazionalizzazione oppure adottare modalità di reclutamento del personale “estero su estero”considerando che i laureati degli altri paesi costano meno di quelli italiani e sono più disponibili a risiedere in altri paesi.

L’invito pressante che il Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia ha fatto agli imprenditori nell’ultima assemblea è stato: “Dobbiamo superare le barriere psicologiche che ostacolano – ha detto – aggregazioni, alleanze, deleghe ai manager. Il controllo e la gestione familiare sono punti di forza finchè non costringono l’impresa a restare troppo piccola per fare ricerca e innovazione, per internazionalizzarsi”

La crisi e la reazione delle aziende

La crisi è stata affrontata in modo particolarmente attivo sul piano del riposizionamento, della ristrutturazione e della riorganizzazione da parte di tre aziende su quattro, secondo i giovani imprenditori e di due aziende su tre, da parte dei giovani manager, con una trasformazione profonda di strategie: una vera e propria “metamorfosi”

Altre aziende viceversa hanno reagito nel modo tradizionale fatto di un progressivo adattamento e di flessibilità continuata per il 40% dei giovani manager e per il 50% delle situazioni, secondo i giovani imprenditori anche se va detto che in questo modo le aziende “si aggiustano” ma non corrono.

Una minoranza, il 5%, secondo i giovani imprenditori e, invece, il 10% per i giovani manager, dichiarano di aspettare con pazienza che la crisi faccia il suo corso, aziende sostanzialmente “attendiste” pronte più a sperare che a confrontarsi con le dinamiche economiche in atto.

Dal gruppo emerge una sostanziale convergenza di opinioni per una minore propensione verso la delocalizzazione produttiva ed una accentuazione delle strategie dirette a sviluppare la rete distributiva all’estero.

Infine per il 64,2% dei giovani imprenditori, contro il 60% dei giovani manager, le aziende hanno risentito della crisi e per il 2010 il risultato sembrerebbe migliore, anche se i giovani manager sono più preoccupati degli imprenditori

Processo di internazionalizzazione più evoluto

Sembra ormai accettato che la crisi ed il suo impatto non costituiscano un fatto passeggero e facilmente riassorbibile; al contrario si intravede un percorso di uscita complesso per l’estensione temporale e per la profondità strutturale dei processi in corso.
Si pensa, ad esempio, di essere di fronte a una vera e propria “mutazione” del modo di fare impresa con la necessità di “alzare l’asticella” della classe dirigente (imprenditori e manager), ricercando alleanze sia “orizzontali” tra imprese simili per essere più forti- mantenendo però una dimensione ridotta – che “verticali” tra imprese complementari, che sappiano integrarsi in una logica di internazionalizzazione evoluta partendo dal presupposto che queste stesse aziende non diventeranno mai nè medie nè tanto grandi.

Dall'inizio del 2008 nell'export di beni è cambiata la tipologia delle aziende interessate: non più il gigantismo ma i micro-settori.
Ma questo export molecolare, “nicchie” che rappresentano il 47% del valore del mercato, conferma che il nostro paese, in termini assoluti, subito dopo la Germania, è primo esportatore mondiale di 288 prodotti, secondo per altri 382 e terzo per 352 con un valore esportato di (100+ 79+ 56) miliardi con 1022 “nicchie” di eccellenza.