giovedì 29 novembre 2007

Dirigenti o caporali?

L’anno 2007 volge al termine ma rappresenta per la categoria “dirigente” un importante momento di svolta. Infatti il messaggio lanciato e sostenuto negli anni dal Presidente Federmanager, il dr. Lazzati, raccolto e sostenuto dal Suo Vice il dr. Caprifoglio, sta cominciando faticosamente a prendere corpo.
Due i contenuti fondamentali, la ridefinizione del modo di intendere la figura manageriale ed il suo trattamento economico contrattualistico. Quindi, Federmanager, vista come una “Associazione” di figure professionali altamente qualificate, quella dei Dirigenti appunto, che si pone non solo come sindacato di categoria ma come primo livello responsabile e stretto collaboratore degli imprenditori. Fin qui potrebbe sembrare che non si dica niente di nuovo, invece non è così.

Se proviamo a porci nell’approccio di Confindustria e di Confapi verso la categoria dirigente, vediamo immediatamente che questo vento di aria nuova non li ha minimamente scalfiti.
Per loro Federmanager era un sindacato e tale resta, peraltro visto, come da sempre, facilmente gestibile in termini di trattativa economica in quanto rappresentativo non di una realtà uniforme e coesa, bensì di migliaia di individualità facilmente condizionabili in ambito aziendale.
Che si parli a livello nazionale o locale la cosa non cambia. I nostri colleghi dirigenti dipendenti di entrambe le associazioni, ben si guardano dal diffondere questo movimento di pensiero, attenti come sono a stare solidamente attaccati alla loro poltroncina. Istituzionalmente devono fare l’interesse degli imprenditori, e questo è comprensibile, ma in che cosa si differenziano dai loro colleghi, dipendenti diretti delle aziende dei loro datori di lavoro?
Non risulta che alcun dirigente, comunque assunto, possa fare una cosa diversa dall’interesse del proprio datore di lavoro. Ma allora dove si nasconde il problema? Forse nella confusione che regna nel raccogliere in una unica categoria tante figure professionalmente diverse.
Se guardiamo a chi ricopre il titolo di dirigente possiamo trovare :
a) L’imprenditore stesso che si nomina dirigente per usufruire dei benefici assistenziali e mutualistici previsti dal C.C.N.L. Dirigenti.
b) I parenti o congiunti dell’imprenditore che egli nomina per una serie di motivazioni che vanno dal lustro del titolo alla opportunità sopra citata.
c) I Direttori Generali o CEO in forza della loro alta carica che li pone controllori e controllati.
d) I Direttori di Funzione o di Area in quanto responsabili di importanti attività nell’ambito dell’organigramma aziendale.
e) I Responsabili di Uffici, Reparti e/o Servizi che per la loro dimensione prevedono una figura dirigente al vertice o che, magari in tempi passati, alcune grandi aziende hanno promosso intravedendo così costi più bassi e magari una più certa possibilità di allontanamento in caso di riorganizzazioni (esuberi).
f) I Tecnici molto bravi, indipendentemente dalla loro specializzazione, che vengono così tenuti “stretti” gratificandoli anche se in pratica non dirigono nulla.
g) I dipendenti “factotum” che da decenni vivono in azienda al servizio incondizionato degli imprenditori e che hanno fatto la libera scelta di affezionarsi al loro posto di lavoro.
h) Coloro che per anzianità di servizio passano automaticamente al così detto Livello Superiore.

Qualcosa di illecito in tutto questo? Certamente no. Ma come si possono rendere compatibili tra di loro le figure che sono state elencate? Il dibattito è da aprire, le soluzioni difficili.
Ma una cosa è certa, nella situazione attuale quella che ci perde è la figura del vero dirigente, di colui che si mette in gioco per condividere le responsabilità imprenditoriali offrendo tutta la propria professionalità per farlo.
Qui allora può essere considerato anche quell’aspetto altrettanto importante, cioè quello economico, dove si offre alla contrattazione una parte significativa della propria retribuzione, rendendola flessibile e cioè strettamente legata ai risultati raggiunti obiettivamente misurabili. Ma a questo punto dobbiamo registrare l’interessata “sordità” delle associazioni imprenditoriali che preferiscono non esporsi su questo tema. D’altra parte se vogliamo parlare di “obiettivi condivisi” e di “risultati obiettivamente misurabili” ne deriverebbe la necessità, per le aziende, di avere progetti chiari e definiti ed aprire ai loro dirigenti “tutte le porte” dell’informazione economico finanziaria. In pratica esporsi.
Forse è più facile, conveniente e meno impegnativo nicchiare su questo punto, mantenendo saldamente le leve del potere attraverso l’informazione “gestita” ed il “diritto di cambiare idea” in corso d’opera. Non ultima la possibilità di trattare individualmente e discrezionalmente.
Riassumendo, se si mantiene il diritto indiscutibile di decidere chi debba essere o no un dirigente e la sua retribuzione su base contrattuale, decidendo di volta in volta quanto convenga dargli come premio, si rimane nella condizione ottimale di figlia di una storia ultracollaudata oramai decennale. Quindi perché cambiare?
Vogliamo dar loro torto? Ebbene, forse, si!
La spiegazione potrebbe stare proprio nel rovescio della medaglia del marmoreo mantenimento dello “status quo”.
Infatti, quali qualità dirigenziali dei suoi diretti collaboratori, avrà bisogno l’imprenditore di domani?
E se fossero analoghe a quelle imprenditoriali? In una crescita esponenziale della competitività internazionale e della complessità gestionale, l’imprenditore illuminato e pragmatico non dovrà forse essere affiancato da persone che, come lui, sappiano e vogliano mettersi in gioco per raggiungere obiettivi ambiziosi e lucrativi? Tanti interrogativi ma poche risposte, purtroppo, da ambo le parti.

lunedì 12 novembre 2007

La gestione dell'anarchia

Ascoltare o leggere le notizie che oramai abitualmente ci arrivano, hanno due argomenti predominanti: - la (cattiva) politica e - la delinquenza.
Volendo, per il momento, accantonare il primo, ci soffermiamo sul secondo.
C’è da rimanere indignati, smarriti, impauriti o comunque scioccati dagli effetti di azioni violente che si concludono con uccisioni, stupri, distruzioni. Perfino la politica si è accorta della mancanza di sicurezza, di ordine, di rispetto delle regole, di quel quieto vivere che la popolazione chiede ed ha sempre chiesto.
Volendo dare un’occhiata al più o meno recente passato certamente non si scopre niente di nuovo.
Gli omicidi per rapina di Vallanzasca o per politica delle Brigate Rosse o della strage di Bologna, fino a quelli a sfondo sessuale del Circeo o di Pier Paolo Pisolini, non differiscono sostanzialmente da quelli delle cronache attuali. Ma qualche differenza forse c’è.
La prima sta nella numerosità degli eventi. La quotidianità e quindi il numero elevatissimo di tali reati è impressionante.
La seconda sta nella reazione delle persone. Sentendo come oggi la gente ne parla, e in che tempi dimentica, ci fa credere che quasi quasi ci stia facendo l’abitudine.
Se è vero che la criminalità esiste con l’uomo e che i fatti delittuosi siano statisticamente rapportati alla numerosità della popolazione, allora occorre confrontare i 52 milioni di persone di quaranta anni fa ai 58 milioni attuali. Ne ricaviamo un aumento dell’11,5% di persone da confrontare con quello del 40% dei delitti. Nelle considerazioni connesse all’approfondimento di questi dati possiamo evidenziare che all’epoca solo l’uno per cento di stranieri era presente in Italia mentre oggi si supera largamente il dieci per cento.
L’economia del nostro Paese viveva un momento di ascesa non scevro di problemi ma con una buona disponibilità di posti di lavoro. Una classe dirigente, quella dei cinquantenni, che aveva vissuto i postumi della prima guerra mondiale e toccato con mano le distruzioni e sofferenze della seconda, fortemente motivata a sostenere la crescita interna sulla scorta di una formazione incardinata sui solidi principi di famiglie dove i diritti erano bilanciati dai doveri.
Non possiamo certo dire che quegli anni non fossero politicamente divisi e travagliati, vista la conflittualità tra la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista, tra il Movimento Sociale e i Centri Sociali espressione della Sinistra oltranzista; ma una cosa era chiara, ciascuno sosteneva e difendeva opinioni politiche ben definite. I ruoli erano delineati e le posizioni ferme.
La nostra società, fondata sulla famiglia, condivideva il rispetto per i valori della vita, per la legge e per le istituzioni. Bianche o rosse che fossero, le famiglie e le scuole di vario livello e grado, insegnavano ai giovani come si sarebbe dovuti “stare al mondo”; che il lavoro era un diritto, ma occorreva guadagnarselo, che fare sacrifici era una necessità per raggiungere qualsiasi obiettivo.
Non credo che allora ci fossero solo “buoni genitori”, “buoni insegnanti”, “buoni giudici” e tanto meno “buoni politici” come, per converso solo dei “buoni figli”. Se andassimo a rileggere i giornali dell’epoca troveremmo solo tanta normalità con le dovute eccezioni, proprio quella che oggi non ritroviamo più.
Ma se la famiglia è cambiata, come pure gli insegnanti, i giudici, i lavoratori, i dirigenti ed i politici allora vuol dire che noi tutti siamo cambiati. Questo di per sé non è che un fatto del tutto naturale; ricordo che quaranta anni fa si diceva esattamente la stessa cosa della generazione precedente. Si lamentava che i giovani non fossero più “quelli di una volta” e che “andando avanti così non sappiamo dove andremo a finire”!
Quindi tutto cambia naturalmente, ma cosa cambia e chi gestisce il cambiamento?
Cambiano i valori in cui si crede ed i leaders. Cambiano i punti di riferimento.
Ma che cosa non può e non deve cambiare? Non possono cambiare il rispetto per gli altri, la libertà individuale, la democrazia nella vita sociale, il valore della vita umana, il diritto alla giustizia.
Questi valori credo che siano nati con l’uomo ma siano stati compresi e realizzati durante l’evoluzione della nostra specie e dei nostri Paesi. Quanto meno in quelli più progrediti dove queste filosofie radicate nel passato hanno potuto germogliare generando democrazie compiute in ambienti repubblicani.
Sangue, lacrime, distruzioni e morti hanno accompagnato queste conquiste e forse oggi, considerandole un fatto acquisito, abbiamo smesso di difenderle, agiatamente seduti sui ricordi dei sacrifici dei nostri predecessori e che abbiamo meramente ricondotto a semplici fatti storici.
Non è possibile che questa globalizzazione che rimescola continuamente etnie e religioni, nuovi poveri e vecchi ricchi, persone oppresse e persone libere, lingue e tradizioni riporti di attualità la necessità di difendere o riconquistare quei diritti e valori succitati?
Da qui: chi gestisce il cambiamento? Dove sono quegli statisti illuminati e quei filosofi moderni che possano ricucire le smagliature di una società che cambia così rapidamente? Dove sono quei genitori che con la loro saggezza ed i loro sacrifici sanno mostrare con l’esempio la giusta strada della vita ai loro figli? Vediamo intorno a noi un turbine di falsi o effimeri ideali che sono gli status simbol moderni come la bellezza fisica, l’apparire piuttosto che essere, la ricchezza e la facilità di raggiungerla purché si sia disposti a pagarne il prezzo morale.
Dove sono quei dirigenti ed imprenditori che con sacrificio ed etica conducono verso lo sviluppo industriale nella ricerca di nuovi sistemi, prodotti e metodologie nel rispetto di un equilibrio tra l’indubbia necessità del guadagno e il rispetto di chi lavora? E’ lecito voler guadagnare in dieci anni quello che fino ad ora si è raggiunto con l’impegno di alcune generazioni di imprenditori? Dove possono portare le politiche di speculazione finanziaria che oramai dilagano nelle attività industriali, commerciali ed agricole? Dove può portare lo spostamento del potere da quello politico ai consigli di amministrazione di società che gestiscono fondi di investimento capaci di condizionare, grazie alle immense dimensioni del capitale loro affidato dai risparmiatori, i mercati di tutto il mondo?
Dio (Allah, Brahma, ecc.) ha creato l’uomo, Diogene lo cercava, non è che noi lo stiamo perdendo?
Sembra proprio che l’egoismo individuale abbia pervaso fino in fondo tutti noi ed a tutti i livelli. Trionfa l’individualismo e quindi l’anarchia. Sappiamo che la nostra forza è rappresentata dal rispetto delle leggi e dalla loro giusta applicazione ma da qualche tempo questa forza vacilla e cominciamo a temere, siamo ritornati insicuri come ci raccontano certe storie medioevali. Riemergono la legge del più forte, la giustizia sommaria, il bisogno/desiderio di autodifesa, la riduzione in schiavitù, l’emarginazione razziale, l’aggregazione in bande che si lanciano contro tutto ciò che rappresenta un sistema non condiviso, il concetto di “mors tua vita mea”; riassumendo: la delinquenza che il vocabolario descrive come “una condotta illegale contro le persone, i beni e le proprietà altrui”.
Se fosse vero, anche solo per metà, ciò che denuncia il libro “La Casta” di S. Rizzo e Gianantonio Stella, dovremmo dire che gli indirizzi politici sono pressoché nulli e la speranza di avere degli statisti alla guida del Paese largamente infondata. Se uniamo le incertezze sulle capacità e competenze dei managers pubblici, ed in buona parte anche privati, alla crisi di un sistema giudiziario ingessato da burocrazia, autodifesa degli “status” e filosofeggiamenti sullo “jus”, allora forse dovremmo chiederci dove stiamo andando e magari… fermarci un attimo a riflettere?