lunedì 12 novembre 2007

La gestione dell'anarchia

Ascoltare o leggere le notizie che oramai abitualmente ci arrivano, hanno due argomenti predominanti: - la (cattiva) politica e - la delinquenza.
Volendo, per il momento, accantonare il primo, ci soffermiamo sul secondo.
C’è da rimanere indignati, smarriti, impauriti o comunque scioccati dagli effetti di azioni violente che si concludono con uccisioni, stupri, distruzioni. Perfino la politica si è accorta della mancanza di sicurezza, di ordine, di rispetto delle regole, di quel quieto vivere che la popolazione chiede ed ha sempre chiesto.
Volendo dare un’occhiata al più o meno recente passato certamente non si scopre niente di nuovo.
Gli omicidi per rapina di Vallanzasca o per politica delle Brigate Rosse o della strage di Bologna, fino a quelli a sfondo sessuale del Circeo o di Pier Paolo Pisolini, non differiscono sostanzialmente da quelli delle cronache attuali. Ma qualche differenza forse c’è.
La prima sta nella numerosità degli eventi. La quotidianità e quindi il numero elevatissimo di tali reati è impressionante.
La seconda sta nella reazione delle persone. Sentendo come oggi la gente ne parla, e in che tempi dimentica, ci fa credere che quasi quasi ci stia facendo l’abitudine.
Se è vero che la criminalità esiste con l’uomo e che i fatti delittuosi siano statisticamente rapportati alla numerosità della popolazione, allora occorre confrontare i 52 milioni di persone di quaranta anni fa ai 58 milioni attuali. Ne ricaviamo un aumento dell’11,5% di persone da confrontare con quello del 40% dei delitti. Nelle considerazioni connesse all’approfondimento di questi dati possiamo evidenziare che all’epoca solo l’uno per cento di stranieri era presente in Italia mentre oggi si supera largamente il dieci per cento.
L’economia del nostro Paese viveva un momento di ascesa non scevro di problemi ma con una buona disponibilità di posti di lavoro. Una classe dirigente, quella dei cinquantenni, che aveva vissuto i postumi della prima guerra mondiale e toccato con mano le distruzioni e sofferenze della seconda, fortemente motivata a sostenere la crescita interna sulla scorta di una formazione incardinata sui solidi principi di famiglie dove i diritti erano bilanciati dai doveri.
Non possiamo certo dire che quegli anni non fossero politicamente divisi e travagliati, vista la conflittualità tra la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista, tra il Movimento Sociale e i Centri Sociali espressione della Sinistra oltranzista; ma una cosa era chiara, ciascuno sosteneva e difendeva opinioni politiche ben definite. I ruoli erano delineati e le posizioni ferme.
La nostra società, fondata sulla famiglia, condivideva il rispetto per i valori della vita, per la legge e per le istituzioni. Bianche o rosse che fossero, le famiglie e le scuole di vario livello e grado, insegnavano ai giovani come si sarebbe dovuti “stare al mondo”; che il lavoro era un diritto, ma occorreva guadagnarselo, che fare sacrifici era una necessità per raggiungere qualsiasi obiettivo.
Non credo che allora ci fossero solo “buoni genitori”, “buoni insegnanti”, “buoni giudici” e tanto meno “buoni politici” come, per converso solo dei “buoni figli”. Se andassimo a rileggere i giornali dell’epoca troveremmo solo tanta normalità con le dovute eccezioni, proprio quella che oggi non ritroviamo più.
Ma se la famiglia è cambiata, come pure gli insegnanti, i giudici, i lavoratori, i dirigenti ed i politici allora vuol dire che noi tutti siamo cambiati. Questo di per sé non è che un fatto del tutto naturale; ricordo che quaranta anni fa si diceva esattamente la stessa cosa della generazione precedente. Si lamentava che i giovani non fossero più “quelli di una volta” e che “andando avanti così non sappiamo dove andremo a finire”!
Quindi tutto cambia naturalmente, ma cosa cambia e chi gestisce il cambiamento?
Cambiano i valori in cui si crede ed i leaders. Cambiano i punti di riferimento.
Ma che cosa non può e non deve cambiare? Non possono cambiare il rispetto per gli altri, la libertà individuale, la democrazia nella vita sociale, il valore della vita umana, il diritto alla giustizia.
Questi valori credo che siano nati con l’uomo ma siano stati compresi e realizzati durante l’evoluzione della nostra specie e dei nostri Paesi. Quanto meno in quelli più progrediti dove queste filosofie radicate nel passato hanno potuto germogliare generando democrazie compiute in ambienti repubblicani.
Sangue, lacrime, distruzioni e morti hanno accompagnato queste conquiste e forse oggi, considerandole un fatto acquisito, abbiamo smesso di difenderle, agiatamente seduti sui ricordi dei sacrifici dei nostri predecessori e che abbiamo meramente ricondotto a semplici fatti storici.
Non è possibile che questa globalizzazione che rimescola continuamente etnie e religioni, nuovi poveri e vecchi ricchi, persone oppresse e persone libere, lingue e tradizioni riporti di attualità la necessità di difendere o riconquistare quei diritti e valori succitati?
Da qui: chi gestisce il cambiamento? Dove sono quegli statisti illuminati e quei filosofi moderni che possano ricucire le smagliature di una società che cambia così rapidamente? Dove sono quei genitori che con la loro saggezza ed i loro sacrifici sanno mostrare con l’esempio la giusta strada della vita ai loro figli? Vediamo intorno a noi un turbine di falsi o effimeri ideali che sono gli status simbol moderni come la bellezza fisica, l’apparire piuttosto che essere, la ricchezza e la facilità di raggiungerla purché si sia disposti a pagarne il prezzo morale.
Dove sono quei dirigenti ed imprenditori che con sacrificio ed etica conducono verso lo sviluppo industriale nella ricerca di nuovi sistemi, prodotti e metodologie nel rispetto di un equilibrio tra l’indubbia necessità del guadagno e il rispetto di chi lavora? E’ lecito voler guadagnare in dieci anni quello che fino ad ora si è raggiunto con l’impegno di alcune generazioni di imprenditori? Dove possono portare le politiche di speculazione finanziaria che oramai dilagano nelle attività industriali, commerciali ed agricole? Dove può portare lo spostamento del potere da quello politico ai consigli di amministrazione di società che gestiscono fondi di investimento capaci di condizionare, grazie alle immense dimensioni del capitale loro affidato dai risparmiatori, i mercati di tutto il mondo?
Dio (Allah, Brahma, ecc.) ha creato l’uomo, Diogene lo cercava, non è che noi lo stiamo perdendo?
Sembra proprio che l’egoismo individuale abbia pervaso fino in fondo tutti noi ed a tutti i livelli. Trionfa l’individualismo e quindi l’anarchia. Sappiamo che la nostra forza è rappresentata dal rispetto delle leggi e dalla loro giusta applicazione ma da qualche tempo questa forza vacilla e cominciamo a temere, siamo ritornati insicuri come ci raccontano certe storie medioevali. Riemergono la legge del più forte, la giustizia sommaria, il bisogno/desiderio di autodifesa, la riduzione in schiavitù, l’emarginazione razziale, l’aggregazione in bande che si lanciano contro tutto ciò che rappresenta un sistema non condiviso, il concetto di “mors tua vita mea”; riassumendo: la delinquenza che il vocabolario descrive come “una condotta illegale contro le persone, i beni e le proprietà altrui”.
Se fosse vero, anche solo per metà, ciò che denuncia il libro “La Casta” di S. Rizzo e Gianantonio Stella, dovremmo dire che gli indirizzi politici sono pressoché nulli e la speranza di avere degli statisti alla guida del Paese largamente infondata. Se uniamo le incertezze sulle capacità e competenze dei managers pubblici, ed in buona parte anche privati, alla crisi di un sistema giudiziario ingessato da burocrazia, autodifesa degli “status” e filosofeggiamenti sullo “jus”, allora forse dovremmo chiederci dove stiamo andando e magari… fermarci un attimo a riflettere?

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