martedì 30 ottobre 2007

La cattiva managerialità

STRETTO DI MESSINA, LARGO DI MANICA 26.10.2007

Ha senso mantenere in attività la Stretto di Messina spa? E' un'impresa interamente in mano pubblica, costituita per promuovere e coordinare la costruzione del famoso Ponte. Ovvero di un progetto che è stato accantonato. Ma anche se si volesse riprenderlo, questa società non sarebbe necessaria perché non è operativa, e la progettazione e costruzione del Ponte sono in mano ad altre imprese. In compenso, secondo il bilancio 2006, tra dipendenti, amministratori, affitti e varie altre voci l'intero carrozzone costa circa 21milioni di euro l'anno.
Pare che qualcuno voglia tenere in piedi la Strettodi Messina spa.

Poiché mi è capitato di leggere il suo ultimo bilancio, credo sia utile raccontare di che si tratta.
Che cos’è, cosa (non) fa e quanto costa
È un’impresa, interamente in mano pubblica, costituita per promuovere e coordinare la costruzione del famoso Ponte di Messina. Si noti che però non è una società operativa, nel senso che la progettazione e costruzione del Ponte sono in mano ad altre imprese. Poiché oggi il progetto è stato "accantonato", la sua mission essenziale oggi non c’è più. Ad esempio, nel passato aveva due "info point" ovvero sportelli per informare e sensibilizzare il pubblico, su un progetto che allo stato attuale non va da nessuna parte; infatti, almeno uno di essi risulta oggi chiuso (meno male), mentre l’altro continua a iinformare. Su cosa? Mistero - In un paese normale, cassato il progetto, avrebbe dovuto essere chiuso il giorno dopo - è come tenere aperta la Fiat in un mondo che avesse deciso di bandire i veicoli a motore. Passando ai dati, dal bilancio del 2006 risulta quanto segue (usiamo il presente per comodità, ma il dato ufficiale è di fine 2006, quando comunque il progetto era già stato accantonato).I ricavi da vendite sono di fatto nulli. L’impresa serve solo a promuovere e a "mettere insieme" il progetto - non vende alcunché. Ma i costi, beh, quelli ci sono...Alla Stretto di Messina spa lavorano circa cento persone. La prima cosa che colpisce è la struttura dell’occupazione: su cento dipendenti, ben tredici sono dirigenti. Se è vero che è un’impresa un po’ particolare, si noti però che un’impresa di cento persone in media di dirigenti ne avrà al massimo tre (a essere generosi).Comunque, viste le retribuzioni, lavorare lì non deve essere male. Si consideri che tra i cento dipendenti ce ne sono sedici a tempo parziale, e - immagino - tanti commessi e impiegati di livello piuttosto basso. Eppure, il costo medio del lavoro in questa impresa, compresi (nei costi) anche gli accantonamenti per la liquidazione (Tfr) eccetera, ma compresi anche quei dipendenti che (suppongo) porteranno a casa circa 1.000 euro al mese, è circa 90mila euro all’anno a persona. Purtroppo non so quanto costino i dirigenti, ma le medie le sappiamo fare... Anche essere nel consiglio di amministrazione non è male. Intanto, si sta in una compagnia nutrita: l’impresa non ha molto da fare, ma gli amministratori sono undici (più il collegio sindacale, si intende). Per un’impresa che non ha alcuna operatività, e che oltre tutto oggi non ha neppure una mission, un po’ tanti... Il costo di questo simpatico gruppo (il solo cda) è di 1,6 milioni di euro all’anno (tre miliardi delle vecchie lire); il tutto, per amministrare cento persone e zero ricavi. Giusto per fare un confronto, a fine 2006 nel consiglio di amministrazione di Enia, una utility emiliana con 1.900 dipendenti e un fatturato di 1,2 miliardi di euro, sedevano otto amministratori che costavano circa 800mila euro, la metà della Stretto di Messina spa.Tra dipendenti, amministratori, sontuosi affitti, eccetera, l’intero carrozzone costa circa 21 milioni di euro l’anno: chi lo vuole tenere in piedi afferma, fino a prova contraria, che questo denaro pubblico è ben speso. Tesi interessante, soprattutto in periodi in cui qualcuno dice di volere moralizzare la politica.

Una nuova mission?
È doveroso sottolineare che a detta dei dirigenti della società - ma confesso che su questo non ho potuto vedere i documenti perché la cosa riguarda il 2007 e il bilancio chiaramente ancora non c’è _ pare che la Stretto di Messina spa si sia buttata su progetti internazionali (ponti) ottenendo anche una commessa. In Albania. È interessante, perché il grosso di questi progetti in Albania lo si fa con i fondi internazionali, e tali fondi, in buona parte di provenienza italiana, sono caratterizzati dal fatto che lo stato estero che li eroga li può vincolare (e tipicamente li vincola) all’impegno che i lavori siano eseguiti da una sua impresa. Ha senso tenere in piedi tutto questo? Da un lato, si noti che il programma elettorale dell’Unione non diceva "non vogliamo il Ponte", ma solo "riguardo al ponte sullo Stretto di Messina, proponiamo di sospendere l’iter procedurale in atto per realizzare le priorità infrastrutturali nel Mezzogiorno".Le ambiguità erano evidenti allora, come oggi.Però, se anche qualcuno volesse riprendere in mano il progetto (la cui ragionevolezza è contrastata da mille analisi, ma questa è un’altra storia) la sopravvivenza della Stretto di Messina SpA non è per nulla necessaria.
Un appello: trovate la soluzione tecnica migliore (la liquidazione? l’incorporazione altrove? Ok, ma senza tenere questi costi, per favore), ma fatela sparire.

lunedì 22 ottobre 2007

Verso un "Contratto UNICO" per il lavoratori

Il "TESTO UNICO" DEL CONTRATTO UNICO
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi 19.10.2007
Una serie di chiarimenti sulle proposte di contratto unico di lavoro, salario minimo nazionale e contributo nazionale uniforme. I temi, lanciati e sostenuti da tempo sulle pagine de lavoce.info, fanno discutere e molti lettori hanno chiesto precisazioni. Ecco un primo abbozzo delle regole per una riforma che possa conciliare flessibilità e tutele e permetta di superare il dualismo fra contratti permanenti e contratti temporanei.

1 - Il Contratto unico
2 - Il Salario minimo nazionale
3 - Il contributo previdenziale uniforme

1. Il Contratto Unico
I contratti di lavoro a tempo indeterminato di nuova stipulazione si articolano secondo uno schema unitario a tutela progressiva della stabilità (di seguito denominato contratto unico).

1.1 Tempo Indeterminato
Il contratto unico è a tempo indeterminato, e quindi non prevede alcun termine di scadenza. Il contratto unico prevede una fase di inserimento ed una fase di stabilità. La fase di inserimento dura fino a tre anni. La fase di stabilità inizia al termine del terzo anno.

1.2 Fase di Inserimento
La Fase di inserimento del contratto unico dura per i primi tre anni di vita del contratto. Durante la fase di inserimento il licenziamento può avvenire solo dietro compensazione monetaria, fatta salva l’ipotesi di licenziamento per giusta causa. Nei casi in cui il licenziamento sia determinato da motivi discriminatori si applica la tutela prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.La compensazione monetaria, durante la fase di inserimento, aumenta di un ammontare pari a 15 giorni di retribuzione per ogni trimestre di lavoro. A titolo di esempio, un contratto unico interrotto dopo 6 mesi di lavoro richiede una compensazione monetaria pari a 1 mese di retribuzione. Dopo tre anni di lavoro, la compensazione è pari a 6 mensilità.

1.3 Fase di Stabilità
Superata la fase di inserimento, il contratto unico viene regolato dalla disciplina dei licenziamenti oggi in essere. Per le aziende con più di 15 dipendenti, si applica quindi la tutela reale prevista dall’ordinamento esistente. Per le aziende con meno di 15 dipendenti, si applica la disciplina relativa alla tutela obbligatoria.

1.4 Riassunzione di Lavoratore presso la stessa azienda
Un’azienda che ha interrotto un contratto unico durante la fase di inserimento potrà riassumere lo stesso lavoratore, nei successivi dodici mesi, solo ripristinando il suo statuto, in quanto a tutele contro il licenziamento, all’atto dell’interruzione del rapporto di lavoro. Ad esempio, se licenziato dopo 6 mesi, avrà fin dal primo giorno diritto a un mese di indennità nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Dal nuovo contratto verrà scomputato il periodo di inserimento già consumato nel precedente contratto. Pertanto, nell’ipotesi di licenziamento dopo 6 mesi, il nuovo contratto avrà una fase di inserimento limitata a 30 mesi.Nel caso in cui un lavoratore assunto con un contratto a tempo determinato venisse poi assunto con contratto unico, anche in questo caso le tutele offerte terranno conto del periodo già passato dal lavoratore presso l’azienda anche se nell’ambito di un altro tipo di contratto. Ad esempio, se il lavoratore ha lavorato con un contratto a tempo determinato per due anni e poi viene assunto con contratto unico, fin dal primo giorno nel nuovo contratto avrà diritto a 4 mesi di indennità nel caso di licenziamento ed il nuovo contratto unico avrà una fase di inserimento limitata ad un anno.

2. Il Salario Minimo
Si istituisce il salario minimo nazionale da applicare a ogni prestazione di lavoro, incluso le prestazione di lavoro a progetto.

2.1 Commissione nazionale per il salario minimo
Con decreto del Ministero del Lavoro, si istituisce la commissione nazionale per il salario minimo. E’ formata da 5 membri e dura in carica 5 anni. La Commissione ha il compito di aggiornare il livello del salario minimo nazionale ogni 12 mesi.

3. Il Contributo Previdenziale Uniforme
Qualunque prestazione di lavoro, incluso le prestazioni di lavoro a progetto, sono assoggettate a un’aliquota previdenziale pari a 33 per cento.

Alcune delucidazioni sulla proposta di contratto unico

Con il rallentamento della crescita dell’occupazione, certificato dalle ultime indagini sulle forze lavoro, vengono al pettine i nodi irrisolti delle riforme del mercato del lavoro degli ultimi quindici anni. Se la disoccupazione continua a calare è soprattutto perché diminuiscono le persone in cerca di lavoro. Aumentano i "lavoratori scoraggiati", quelli che rinunciano a cercare lavoro, più che gli occupati. Il Mezzogiorno registra un vistoso calo del suo tasso di occupazione. Al persistente dualismo territoriale del nostro mercato del lavoro, si sovrappone il dualismo fra contratti permanenti e contratti temporanei. La quota di lavoratori temporanei sul totale del lavoro dipendente è ulteriormente aumentata nell’ultimo anno, portandosi al 13,4 per cento. Per le donne l’incremento è stato quasi di un punto e mezzo: oggi una donna occupata alle dipendenze su sei ha un contratto a tempo determinato. Molte altre donne gonfiano le fila del lavoro parasubordinato. I lavoratori duali si avviano a superare la soglia dei 4 milioni. Sono la maggioranza tra i più giovani. Questo nuovo dualismo non può essere considerato un problema marginale, come sostenuto recentemente da Alberto Bombassei, vicepresidente di Confindustria. Secondo noi è un problema reale che deve essere affrontato con ben altro passo e determinazione rispetto a quelli mostrati dall’attuale governo e da quello precedente.
Qualcosa si muove
Il senatore Tiziano Treu ha inserito nella bozza di programma del Partito democratico un esplicito riferimento a un contratto di lavoro unico con tutele crescenti nel tempo, in sintonia con una parte della proposta di riforma per combattere il dualismo elaborata e discussa su www.lavoce.info da più di due anni, e accolta allora con notevole apertura dal sindacato. Walter Veltroni, candidato alla leadership del costituendo partito, ha mostrato interesse nei confronti della proposta. Da allora molti lettori ci hanno chiesto delucidazioni a riguardo. Alcuni hanno addirittura formulato proposte integrative per renderla maggiormente incisiva. Nel ringraziarli per il loro interesse, vogliamo qui offrire risposte ad alcuni dei quesiti più frequenti.

Oltre al contratto unico, rimane tutto come prima?
No. Una strategia vincente contro il dualismo deve imporre standard minimi che valgano per tutti i tipi di contratti. Altrimenti ci saranno sempre delle asimmetrie. Per questo riteniamo fondamentale che venga introdotto un salario minimo orario che valga per ogni tipo di prestazione alle dipendenze offerta nel nostro paese. Per tutelare il futuro previdenziale dei giovani, tutti i contratti alle dipendenze dovrebbero, inoltre, garantire lo stesso livello di contributi previdenziali. Infine, per dissuadere un uso eccessivo dei contratti a tempo determinato, riteniamo che chi assume con contratti a termine debba pagare contributi più alti per le assicurazioni contro la disoccupazione, dato che più forte è il rischio che il contratto sfoci in un periodo di disoccupazione.

Come può il contratto unico conciliare flessibilità e tutele?
Il contratto unico permette alle imprese un’assunzione "flessibile", aumentando gradualmente le tutele del lavoratore, senza forti discontinuità. Nella nostra proposta, il contratto ha tre fasi: la prova, l’inserimento e la stabilità. Chi viene assunto con un contratto a tempo indeterminato, è soggetto a un periodo di prova di sei mesi, come oggi avviene già per alcune categorie. Serve a non scoraggiare il datore di lavoro, che vuole essere garantito circa le qualità del lavoratore. Successivamente, dal sesto mese al terzo anno dopo l’assunzione, il lavoratore è coinvolto in un periodo di inserimento in cui viene tutelato dalla protezione indennitaria (da due a sei mesi di salario) nel caso di licenziamento economico e deve essere reintegrato in azienda nel caso di licenziamento discriminatorio o lesivo di diritti fondamentali. In questo periodo di inserimento, datore di lavoro e lavoratore investono in capitale umano. Al termine del terzo anno, l’obbligo di reintegrazione (la cosiddetta tutela reale) viene esteso anche ai licenziamenti economici senza giusta causa.

Non sono troppi tre anni?
Nella nostra proposta la prova dura solo sei mesi. Dopo questi sei mesi, l’interruzione del rapporto di lavoro dà diritto a un indennizzo. Oggi i lavoratori a progetto non hanno diritto ad alcun indennizzo e i contratti a tempo determinato hanno sempre una scadenza, al termine della quale non vi è alcuna compensazione monetaria nel caso in cui il rapporto di lavoro si interrompa. Nel contratto unico, dopo i sei mesi di prova c’è sempre quanto meno un indennizzo monetario. In questo senso, la nostra proposta è decisamente migliorativa.

Ma non c’è già l’apprendistato?
Il contratto unico a tempo indeterminato può essere offerto a tutti, non solo ai lavoratori con meno di 30 anni, per facilitare il reingresso nel mercato di donne dopo il periodo di maternità e di lavoratori più anziani. Non ha limiti di durata. E non prevede riduzioni dei contributi previdenziali, come oggi avviene per l’apprendistato. La nostra proposta non comporta oneri per il contribuente, come invece avviene per l’apprendistato. Quindi è davvero molto diverso.

Il contratto unico è la stessa cosa del Contrat de Premiere Embauche (Cpe) che ha scatenato le proteste nelle piazze francesi?
Niente affatto. Semmai, il contratto unico ha qualche similitudine con il Contrat Nouvelles Embauches (Cne) in vigore in Francia dal 2005, dove ha contribuito a stabilizzare i rapporti di lavoro. A differenza del Cpe, il contratto unico è a tempo indeterminato e non riguarda solo i giovani. Nel caso di licenziamento economico durante il periodo di inserimento, il datore di lavoro è comunque tenuto a fornire una motivazione e a offrire un risarcimento, cosa non prevista nel Cpe (e nello stesso Cne) in cui, nei primi due anni, il licenziamento non richiede alcuna giustificazione e solo un breve periodo di preavviso.

Cosa succede agli altri contratti?
Rimangono, ma devono essere compatibili con gli standard minimi definiti sopra, in termini di salario minimo orario e contributi previdenziali obbligatori.

Cosa impedisce a un datore di lavoro di allungare il periodo flessibile?
Se un datore di lavoro assume un lavoratore con un contratto a tempo determinato (o un contratto a progetto) e, al termine di questo contratto, vuole assumere il lavoro con un contratto a tempo indeterminato, il contratto partirà dal periodo di stabilità, non potrà contemplare né periodo di inserimento, né periodo di prova.

Cosa impedisce a un datore di lavoro di interrompere il rapporto di lavoro prima dell’inizio della terza fase?
Il datore di lavoro che vuole interrompere il rapporto di lavoro nel periodo di inserimento dovrà compensare il lavoratore offrendogli fino a sei mensilità. Come abbiamo detto, tale onere oggi non è presente nei contratti a progetto e a tempo determinato giunti alla scadenza. In altre parole, anche nei primi tre anni aumenta la protezione dei lavoratori rispetto allo status quo, la modalità di gran lunga dominante di assunzione dei lavoratori con meno di 40 anni.

mercoledì 10 ottobre 2007

cultura di impresa

A proposito di ricambio generazionale nelle aziende:

RIFLESSIONI SUL RICAMBIO GENERAZIONALE IN ITALIA

Quando si parla di ricambio generazionale inceppato in Italia, alcuni sostengono la tesi che la variabile età e sesso di per sé non conti e che l'unico criterio da adottare sia quello del merito. C'è però il rischio che questo argomento sia un pretesto per lasciare irrisolta la questione generazionale. Almeno per quattro motivi. Eppure, se non si affronta seriamente il problema, saremo destinati ad accentuare la nostra naturale propensione a difendere il benessere acquisito anziché investire sul futuro.
Cerchiamo di spiegare brevemente in quattro punti perché la tesi non è del tutto convincente in assoluto.

Se il sistema è bloccato
Primo. Il criterio del merito è sacrosanto, ma è concretamente applicabile solo in presenza di una certa dinamicità nel sistema: cioè se continuamente si entra (per merito) e continuamente si esce (per demerito o anche solo perché finisce un ciclo). Viceversa, se il sistema è bloccato, e chi arriva a occupare posizioni di potere e prestigio vi rimane poi per decenni o vita natural durante, allora prima ancora della questione del merito, si pone il problema di un blocco all'ingresso, prodotto dalle generazioni più vecchie rispetto a quelle più giovani.Secondo. La questione del ricambio generazionale è analoga a quella delle pari opportunità tra donne e uomini. Anche per la sottorappresentanza femminile (soprattutto italiana), a lungo si è cercato di liquidare il problema affermando che la questione andava posta su capacità e merito e non sul genere: "una classe dirigente con più donne non è necessariamente migliore". Ma ci si è accorti poi che ciò vale solo in un mondo ideale, e che invece nel mondo reale, nel quale l'Italia rientra a pieno titolo, le quote rosa servono per sbloccare un sistema che altrimenti lascerebbe ben pochi spazi (a monte e a valle della candidatura).

La capacità di leggere il futuro
Terzo. Un ulteriore importante motivo per non trascurare il dato anagrafico è quello relativo alla capacità di lettura e di intervento sui cambiamenti in atto. In un periodo di trasformazioni accelerate, come quello attuale , il divario tra le generazioni è destinato ad allargarsi. I giovani si trovano di fronte a un sistema di rischi, vincoli, ma potenzialmente anche opportunità, molto diverso da quello delle generazioni precedenti e in particolare rispetto a chi è cresciuto e si è formato negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Siamo allora sicuri che, a parità di merito, non convenga investire di più su una persona di quaranta anni rispetto a una di settanta? E inoltre, proprio per il fattore anagrafico, non sarà il nostro quarantenne più portato ad avere una visione maggiormente orientata al futuro, se non altro perché lo riguarderà direttamente, invece che a rincorrere l'uovo oggi? L'elevata età di chi attualmente ha le leve del comando, nettamente più alta rispetto agli altri paesi occidentali, c'entra qualcosa con il fatto che in Italia cambiando le regole del mercato del lavoro ci si è dimenticati di mettere in campo adeguati ammortizzatori sociali; che si faccia così fatica a sciogliere il nodo delle pensioni; che si proceda ad aggiustamenti continui senza intervenire con riforme strutturali; che rispetto a tutto ciò a rimetterci siano soprattutto i giovani e il loro futuro, e quindi anche quello del nostro paese? Sintomatica è stata poi la recente uscita dell'anziano Ministro Padoa Schioppa. Avrebbe dovuto chiedere scusa ai giovani per non riuscire nemmeno con questa Finanziaria a ridurre in modo significativo il gap con gli altri grandi paesi europei in termini di strumenti di protezione sociale per i giovani, ed invece li definisce "bamboccioni". Questo è l'atteggiamento di chi considera i giovani come figli a cui destinare dei favori e non dei cittadini che hanno diritto ad una politica seria nei loro confronti.

La questione demografica
Quarto. C'è infine la questione demografica: un problema del mondo occidentale che si manifesta più acutamente in Italia. L'invecchiamento della popolazione ridurrà nei prossimi decenni, in modo inedito rispetto alla storia dei paesi democratici, il peso politico dei giovani. Per tutta la seconda metà del Novecento gli under 35 sono stati circa un terzo della popolazione votante, mentre scenderanno sotto il 20 per cento nei prossimi decenni. Viceversa aumenterà notevolmente l'incidenza degli anziani sull'elettorato: gli ultra sessantacinquenni sono attualmente meno del 25 per cento, ma sono destinati ad aumentare progressivamente nei prossimi decenni, fino a sfiorare il 40%.Il peso dell'elettorato anziano è destinato in Italia più che altrove (tranne forse in Giappone), a diventare preponderante. E siamo un paese nel quale già attualmente la politica si interessa poco dei giovani (basta vedere com'è distribuita la spesa pubblica), e la classe dirigente è tra le più anziane. Parlare di gerontocrazia è forse eccessivo, ma se c'è un paese che vi si può avvicinare più degli altri, questo è proprio l'Italia di domaniSe non si affronta quindi seriamente il problema del rapporto tra le generazioni, saremo destinati ad accentuare la nostra naturale propensione a difendere il benessere acquisito anziché investire sul futuro.Sono quattro motivi per mettere in guardia dal rischio che nel dibattito in corso la questione del merito diventi un pretesto per lasciare irrisolta quella generazionale.