mercoledì 26 ottobre 2011

Crisi economico finanziaria: Nuovo rapporto fra Stato e mercato?

Domanda posta a Marc Lazar:

“Una crisi così difficile da gestire per gli effetti sulle politiche economiche e sociali e per la stessa tenuta dei governi impone una rilettura del rapporto tra stato e mercato. Ritiene che le due scuole: liberaldemocratica e socialista riformista, potranno trovare un punto di mediazione?”
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La risposta:

“Tre grandi posizioni si confrontano. Da una parte, sopratutto a sinistra ma anche in alcuni settori della destra e dei populisti, c’é l’idea della necessità di un ritorno illusorio allo stato. Più stato sociale per la sinistra, uno stato efficiente costruito su politiche repressive contro delinquenza, insicurezza e immigrazione per la destra. La tentazione al protezionismo in questi ambiti è molto forte, sia a livello nazionale che europeo. Ci sono poi le componenti liberiste, abbastanza forti in alcuni paesi europei, in Gran Bretagna per esempio, in Germania, e in America che vogliono liberalizzare, ridurre ancora il peso dello stato, abbassare le tasse, per rilanciare l’economia e le forze sociali.
Poi tra questi due schieramenti al centro sinistra come al centro destra, vi sono esponenti che cercano di conciliare il dinamismo dell’economia e della società con un’autorità pubblica riformata, modernizzata, efficiente, capace di costruire un’istanza animatrice e regolatrice sia al livello nazionale, che europeo, quando non persino mondiale.
Da questo punto di vista, la situazione attuale, come ogni momento di crisi, credo sia interessante, perché rilancia un confronto intellettuale che potrebbe aprire una nuova fase politica in Italia e in Europa, con un rimescolamento generale di tutte le carte.”

*Marc Lazar docente di storia e sociologia
politica a Parigi presidente della School of
Governement della Luiss.
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sabato 15 ottobre 2011

Indignati, indecorosi e ....... imbecilli

Chi ha vissuto gli anni del ’68 ha un’idea abbastanza precisa di cosa abbia voluto dire la contestazione studentesca rivolta ad un sistema che stava cercando un equilibrio dopo i lunghi anni di una democrazia fragile e troppo giovane. Oggi le cose sembrano essere diverse da allora anche se alcuni fattori comuni ne accompagnano la continuità. Ma sono pochi. Gli elementi di diversità invece li sovrastano. Innanzi tutto la grande incertezza rivolta al futuro dei giovani e meno giovani. In effetti ci troviamo davanti ad un numero sempre crescente di laureati e diplomati che ambirebbero ad una occupazione in tempi brevi e ad una platea di disoccupati, cassa integrati in età non troppo giovane che il mondo lavorativo mostra di emarginare.
Ora il problema non sta nella più o meno adeguata formazione scolastica che effettivamente è ai minimi storici, né nell’adeguatezza di competenze lavorative crescenti di coloro che hanno perso un’occupazione stabile.
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Certo, si tratta anche di questo, ma il problema si sposta un po’ più avanti. La contingenza dei fatti è grave ma se si pensa e si spera di superarla lo stato d’animo è diverso. Invece, per moltissimi questa speranza non c’è. La terribile parola che la esprime si chiama CRISI. Fatto non nuovo, anzi sistematicamente ripetitivo nell’evoluzione umana ma che ha un grande elemento di novità: quello della caduta dei valori sia umani sia sociali. E’ certo che il sistema economico mondiale si sia profondamente trasformato in pochi anni a seguito dello sviluppo dei Paesi emergenti e della globalizzazione senza darci il tempo di adeguarvi i nostri stili di vita ed il nostro modo di pensare, quindi di vedere il modo di affrontare l’inevitabile cambiamento. Ma questo lo possiamo dire all’uomo (donna) della strada e non certo a chi ne è stato autore e sostenitore: il mondo politico e quello della finanza. Entrambi accomunati da un comune obiettivo: detenere il potere e sfruttarne ogni opportunità. Etica comportamentale che è scomparsa per lasciare posto alla giustificazione dell’uso di ogni mezzo per l’interesse di pochi. Pubblicizzazione di concetti sacrosanti per nascondere le proprie nefandezze (vedi lo spot pubblicitario che invita a non evadere le imposte emesso da personaggi all’onore della cronaca per evasione fiscale) con un appiattimento dei media al servizio di questo e di quello e conseguente indignazione di un popolo di onesti offeso da tanta supponenza. Speculazioni finanziarie che vedono attori istituti di credito di tutto il mondo con guadagni iperbolici per decine di anni e spaventosamente messi in gravi difficoltà da insipienti manovre di credito occultate nei “derivati” e poi trasferite senza ritegno anche negli investimenti del popolo lavoratore. Dopo di che “stretta creditizia” nei confronti delle attività economiche e inevitabile arresto degli investimenti, ergo dell’occupazione lavorativa. Anni di reclame televisiva della bellezza per raggiungere presto e facilmente il benessere, magari attraverso “concessioni” che fanno “rosa” la cronaca e distruggono definitivamente i valori etici della morale. C’è altro che essere INDIGNATI davanti a tanti INDECOROSI.
Giustamente il dr. Draghi condivide questa indignazione pur sedendo su uno dei più alti scranni della finanza. Giustamente in più di mille città milioni di persone hanno manifestato questo sentimento, questa rabbia, questa voglia di non essere più “oggetti passivi” disposti a subire le conseguenze e tacere.
Desiderio di essere presenti davanti al potere in forma civile e democratica per chiedere il cambiamento del sistema perché, in effetti, stiamo traslando dalla seconda alla terza rivoluzione economica.
Purtroppo in questo passaggio si esprimono secondo il loro metodo antico “gli IMBECILLI”. I disadattati sociali per i quali “tanto peggio tanto meglio”. Rubare la scena, sfogare la brutalità, popolo di Unni sempre pronti alla violenza ed alla distruzione. Ad essi tutto il mio disprezzo. Da sempre ho imparato a rispettare i diversi punti di vista, il confronto di idee magari contrastanti, a capire che nella società umana non siamo tutti uguali, che la giustizia è un desiderio quasi utopico, ma mai ad accettare la violenza fine a sé stessa.
Ma forse anche queste loro brutalità possono avere un’utilità, devono essere un forte messaggio alla classe politica di un malessere sociale che, se dovesse allargarsi agli onesti, in termini di disperazione porterebbe a fatti difficilmente gestibili. Non dimentichiamo la storia, ed in essa la rivoluzione francese, quella russa piuttosto che quella messicana e, visto che siamo nel nostro 150°, quella mazziniana.

lunedì 10 ottobre 2011

Le classi dirigenti che non dirigono

Riprendo da “Varese News” la seguente lettera al Direttore:

“Egregio Direttore, le domande che il signor Gianni pone hanno una logica risposta. Da secoli quella citata dal lettore è il tipo di società che nasce dalle viscere delle popolazioni e solo la ragione, l'affinamento del pensiero, il progresso scientifico, la cultura, il sapere, l'evoluzione dei comportamenti hanno contrastato l'istinto primordiale del rifiuto e spesso della soppressione del diverso. Classi dirigenti e persone illuminate hanno guidato l'umanità nei secoli, hanno convogliato l'energia vitale verso le conquiste civili, la difesa dei diritti, la tutela dei deboli, il rispetto dell'altro. Oggi le classi dirigenti che si susseguono assolutamente invano non "dirigono" proprio niente, anzi, invece di porsi obiettivi e avere progetti lungimiranti seguono pedissequamente la pancia della gente nel tentativo di ingraziarsene i favori: e allora ecco che spuntano sindaci sceriffi, ronde di sorveglianza, leggi esemplari, manganelli e quant'altro Non è questione di Destra o Sinistra, è questione di ritorno alla barbarie, alla primitività ; perchè chi ha il compito di governare gli umori e amministrare la Legge è eticamente, intellettualmente e politicamente debole. Assistiamo così al paradosso che chi governa asseconda il popolo anziché elevarlo, istruirlo, anticipandone i rigurgiti ancestrali.

Non solo costoro non sono in grado di proteggerlo dai veri pericoli, ma li alimentano con scellerate sub-politiche che rendono l'individuo sempre più debole, più smarrito e di conseguenza meno tollerante. Occorrerebbe un miracolo perchè i politicanti oggi al potere si ravvedano; non sono in grado, non sono capaci e la loro incapacità, la loro pochezza diventa linfa per una società violenta e malata: quella in cui siamo immersi oggi e che invece di rassicurarci aumenta la paura, perpetua un circolo vizioso che soffoca ogni anelito di civiltà”

Evidentemente questo intervento si rivolge alla domanda di aver rilevato un disagio sociale ed una difficoltà ad accettare le migrazioni extracomunitarie e non solo. Facendo parte di quella schiera di persone disorientate dal caos politico ma ancor più dalla caduta dei valori e quindi dei paletti entro cui si muoveva la nostra democrazia, mi sento di condividere nella sostanza questa opinione.
Ma, prendendo spunto da queste osservazioni, la domanda che mi pongo non si rivolge ai dirigenti politici bensì a quelli che hanno responsabilità di indirizzo e gestione delle attività private, siano esse industriali o commerciali o bancario-assicurative.
I dirigenti in Italia sono relativamente pochi (125mila nel privato e 180mila nel pubblico) e soprattutto nel settore privato la scarsa managerialità delle aziende frena lo sviluppo. Se pensiamo che solo 32mila aziende hanno in Italia almeno un dirigente al loro interno (su 5.280.000) e che i 125mila dirigenti presenti sono pari a meno dell’1% dei lavoratori dipendenti privati, contro un rapporto di 3% di Francia e Germania, abbiamo uno dei principali motivi della nostra ormai decennale capacità di crescere.
Non v’è dubbio alcuno quindi che la managerialità nel nostro paese debba crescere, ma le organizzazioni di rappresentanza dei dirigenti privati, nate proprio nel primo dopo guerra, hanno tanto da dire e da fare anche in termini di professionalità, lavoro, sviluppo dell’economia, welfare ecc.
Si vuole rafforzare la presenza manageriale nella nostra economia non solo in termini numerici, ma anche e soprattutto in termini di ruolo a tutto tondo che una dirigenza dotata di adeguati poteri e deleghe, valutata sui risultati e non sulla fedeltà deve poter giocare appieno per dare il suo indispensabile contributo allo sviluppo.
Quello che sta accadendo nell’economia reale mondiale, con le aggregazioni societarie, le acquisizioni dei brand del made in Italy da parte di colossi stranieri, la dice lunga sul grado di maturità del capitalismo di casa nostra: aziende piccole, guidate da ‘padroncini’ che spesso temono la competizione internazionale e rifuggono dalla quotazione in borsa. La ‘spinta’ propulsiva dell’imprenditore così si ferma, impantanata dalla burocrazia, indebolita dalla mancanza di un ‘sistema Paese’, priva di strategia per i limiti del capitalismo familiare.
Anche le ‘eccellenze’ imprenditoriali – in mancanza di una visione manageriale fatta di aggregazioni ed alleanze – finiscono per essere facile preda delle multinazionali. E’ tempo di un cambio di marcia che deve venire dall’interno del tessuto economico, delle aziende e del capitale umano che le compongono.

martedì 4 ottobre 2011

E' iniziata la Terza Rivoluzione Industriale?

Jeremy Rifkin è il fondatore e il presidente della Foundation on Economic Trends di Washington si è laureato in economia del Wharton School of Finance and Commerce dell’Università della Pennsylvania, e in affari internazionali alla Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University.
Verso la metà degli anni settanta, i suoi libri Common Sense II e Own Your Own Job sono stati i primi a divulgare l’idea di proprietà e gestione delle imprese da parte dei loro lavoratori. Oggi, venticinque anni più tardi, la United Airlines e altre grandi società sono state acquistate dai propri dipendenti e stanno cambiando il modo in cui si fanno affari in America.

Alla fine degli anni settanta, Jeremy Rifkin è stato co-autore di The North Will Rise Again: Pensions, Politics and Power in the 1980s, un saggio pionieristico al quale viene spesso riconosciuto il merito di aver cambiato l’atteggiamento dell’opinione pubblica e la politica governativa rispetto all’uso sociale di centinaia di miliardi di dollari investiti nei fondi pensionistici statunitensi. Negli anni ottanta, Jeremy Rifkin ha pubblicato Entropy, il best-seller internazionale in cui per la prima volta si fondevano la teoria economica e quella ambientale. Il libro ha contribuito a lanciare quelli che sarebbero poi diventati gli attuali concetti di sviluppo sostenibile.
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Una fatica inutile quella del nucleare. Perché se anche rimpiazzassimo nei prossimi anni tutte le centrali nucleari esistenti nel mondo, il risparmio di emissioni sarebbe comunque un'inezia. Un quarto di quel che serve per cominciare a rimettere le briglie ad un clima impazzito. Jeremy Rifkin non ha dubbi: quella atomica è una strada sbagliata, di retroguardia. Come curare malattie nuovissime con la penicillina. Non c'è neppure bisogno dei campanelli d’allarme tipo Krsko o Fukushima per capirlo.
Basta guardare i numeri senza le lenti dell'ideologia. Proprio l'attitudine che, in Italia, scarseggia di più per il guru dell'economia all'idrogeno. Si vedrebbe così che l'uranio, come il petrolio, presto imboccherà la sua parabola discendente: ce ne sarà di meno e costerà di più. Che il problema dello smaltimento delle scorie sia drammaticamente aperto anche negli Stati Uniti dove lo studiano da anni. "Vi immaginate uno scenario tipo Napoli, ma dove i rifiuti fossero radioattivi?" è il suo inquietante memento. Meglio puntare su quella che lui chiama la "Terza Rivoluzione industriale".

Da una sua intervista del 2008:

C'è un'energia di destra e una di sinistra?
"Direi modelli energetici élitari e altri democratici. Il nucleare è centralizzato, dall'alto in basso, appartiene al XX secolo, all'epoca del carbone. Servono grossi investimenti iniziali e altrettanti di tipo geopolitico per difenderlo".

E il modello democratico, invece?
"È quello che io chiamo la "Terza Rivoluzione Industriale". Un sistema distribuito, dal basso verso l'alto, in cui ognuno si produce la propria energia rinnovabile e la scambia con gli altri attraverso "reti intelligenti" come oggi produce e condivide l'informazione, tramite internet".

Immagina che sia possibile applicarlo anche in Italia?
"Sta scherzando? Voi siete messi meglio di tutti: avete il sole dappertutto, il vento in molte località, in Toscana c'è anche il geotermico, in Trentino si possono sfruttare le biomasse. Eppure, con tutto questo ben di dio, siete indietro rispetto a Germania, Scandinavia e Spagna per quel che riguarda le rinnovabili".

Ci dica come si affronta questa transizione.
"Bisogna cominciare a costruire abitazioni che abbiano al loro interno le tecnologie per produrre energie rinnovabili, come il fotovoltaico. Non è un'opzione, ma un obbligo comunitario quello di arrivare al 20%: voi da dove avete cominciato? Oggi il settore delle costruzioni è il primo fattore di riscaldamento del pianeta, domani potrebbe diventare parte della soluzione. Poi serviranno batterie a idrogeno per immagazzinare questa energia. E una rete intelligente per distribuirla".

Oltre che motivi etici, sembrano essercene anche di economici molto convincenti. È così?
"In Spagna, che sta procedendo molto rapidamente verso le rinnovabili, alcune nuove compagnie hanno fatto un sacco di soldi proprio realizzando soluzioni "verdi". Il nucleare, invece, è una tecnologia matura e non creerà nessun posto di lavoro. Le energie alternative potrebbero produrne migliaia".

A questo punto solo un pazzo potrebbe scegliere un'altra strada. Eppure non è solo Roma ad aver riconsiderato il nucleare. Perché? "Credo che abbia molto a che fare con un gap generazionale. E ve lo dice uno che ha 63 anni. I vecchi politici, cresciuti con la sindrome del controllo, si sentono più a loro agio in un mondo in cui anche l'energia è somministrata da un'entità superiore".

Quindi, secondo Rifkin; bisogna cambiare e subito. Di fatto la “Terza Rivoluzione industriale” è già iniziata e la crisi economica in corso deve convincerci ad affrettare il passo verso un nuovo paradigma per la nostra società. Questo modello richiede di abbandonare la dipendenza energetica dal petrolio ma anche di mutare radicalmente i rapporti economici, la politica, l’istruzione e l’ambiente.
Rifkin sintetizza quest’evoluzione affermando che:”Verso la fine degli Anni Settanta è terminata la Prima Rivoluzione industriale, nel senso che abbiamo smesso di vivere grazie ala ricchezza che producevamo. Siamo entrati nella Seconda Rivoluzione industriale in cui, poco alla volta, abbiamo bruciato i nostri risparmi e cominciato a vivere di debito”. Da qui l’esposizione a crisi ricorrenti in quanto vengono immesse forti quantità di denaro e diciamo di tagliare le spese. Ma la ripresa si alimenta spendendo e le spese fanno crescere la domanda facendo sì che i Paesi emergenti aumentano la produzione per soddisfarla e questo fa salire i costi delle materie prime come il petrolio. La conseguenza è un aumento dei costi di tutti i prodotti tra i quali quelli alimentari e si torna ad indebitarsi per fronteggiare i maggiori costi. Un circolo vizioso da cui non si esce.” “Bisogna pertanto modificare il nostro paradigma economico, smettere di consumare le ricchezze del passato e tornare a produrre liberando la nostra creatività”.
Uno degli assi portanti di questa Terza Rivoluzione sarà rappresentato dal modo di produrre l’energia. Non più calata dall’alto ed imposta ma prodotta dal basso da milioni di attività per il proprio consumo e con la commercializzazione dell’eccedente. Quindi un nuovo modello di business collaborativo sul modello del capitalismo distribuito. Esso produrrà una moltiplicazione dei servizi con grandi economie di scala riducendo i capitali necessari per avviare e sostenere le attività stesse, l’energia necessaria ed i costi del lavoro a beneficio della produttività. Ovvio l’impatto sul modo di fare politica dove sarebbero dominanti non più i partiti centrali, bensì le relazioni sociali trasversali sostenute dal sistema informatico come è Internet.
Mentre la Prima e Seconda Rivoluzione Industriale erano accompagnate dalle economie nazionali e dalla governance della Nazione-Stato, la Terza, essendo distributiva e collaborativa per natura, progredisce lateralmente e favorisce le economie e le unioni governative continentali. Nella nuova Era globalmente connessa, la missione primaria dell’istruzione sarà preparare gli studenti a pensare ed agire come parte di una biosfera condivisa. L’approccio dominante dell’insegnamento dall’alto al basso, che ha l’obiettivo di creare un essere competitivo ed autonomo, sta dando spazio ad una istruzione “distribuita e collaborativa”.
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