mercoledì 15 giugno 2011

Tutto sta cambiando: si va verso un Mondo Nuovo

Il mondo sta cambiando più rapidamente di quanto non sia avvenuto negli ultimi cinquanta anni; il progresso tecnico-tecnologico ha mutato considerevolmente la vita delle persone in tutte le Nazioni evolute e si è affacciato prepotentemente nelle aree asiatica e sud americana. I radicalismi etnico religiosi si stanno confrontando con la domanda di evoluzione sociale che scuote i popoli dell’area mediterranea contrapponendosi agli autoritarismi politico-economici vecchi e nuovi.
L’esplosione demografica dei Paesi in via di sviluppo attraversa tumultuosamente i confini dei luoghi di origine e richiama verso le aree più ricche milioni di persone. Nel 1975 la popolazione mondiale raggiunse i 4 miliardi di individui, quasi raddoppiando in questi 36 anni (Oggi si stima in 7 miliardi) e toccando la propria velocità di crescita più elevata.
In meno di mezzo secolo sostanzialmente il pianeta Terra si è popolato di tante persone quante se ne erano raccolte in tutti i millenni precedenti. Molto significativo sarebbe osservare la diversissima crescita tra Europa e gli altri continenti, cioè negativa per l’una e positiva per gli altri.

Distribuzione percentuale storica e futura della popolazione per percentuale sulla popolazione mondiale
Regione 1750 1800 1850 1900 1950 1999 2050 2150
Mondo 100 100 100 100 100 100 100 100
Africa 13,4 10,9 8,8 8,1 8,8 12,8 19,8 23,7
Asia 63,5 64,9 64,1 57,4 55,6 60,8 59,1 57,1
Europa 20,6 20,8 21,9 24,7 21,7 12,2 7,0 5,3
America Sud 2,0 2,5 3,0 4,5 6,6 8,5 9,1 9,4
America Nord0,3 0,7 2,1 5,0 6,8 5,1 4,4 4,1
Oceania 0,3 0,2 0,2 0,4 0,5 0,5 0,5 0,5

Posizione Paese Popolazione Data % popolaz. mondiale
1 Cina 1.344.720.000 2011 19.97%
2 India 1.180.130.000 2011 17.53%
3 USA 310.569.198 2011 4.56%
4 Indonesia 238.827.455 2008 3.55%
5 Brasile 194.510.000 2011 2.89%
6 Pakistan 172.819.000 2011 2.57%
7 Bangladesh 155.009.941 2008 2.30%
8 Nigeria 147.650.948 2008 2.19%
9 Russia 140.387.818 2008 2.09%
10 Giappone 127.205.040 2008 1.89%
11 Messico 110.547.123 2008 1.64%
12 Filippine 96.962.954 2008 1.44%
13 Vietnam 86.518.311 2008 1.28%
14 Etiopia 83.794.239 2008 1.24%
15 Germania 82.352.473 2008 1.22%


In questi 15 paesi vivono all’incirca 4.3 miliardi di persone, che rappresentano approssimativamente i due terzi dell’intera popolazione mondiale. La popolazione totale dell’Unione Europea - 494 milioni di persone - era all’incirca il 7.3% della popolazione mondiale nel 2006 e avrebbe occupato il terzo posto nella lista di cui sopra.
Leggendo questi dati vediamo che oggi una persona su cinque nel mondo è cinese ed una su cinque e mezzo è indiana. Il 60% della popolazione mondiale è asiatica.
La globalizzazione economico finanziaria sta coinvolgendo popoli che parlano seimila lingue diverse; fondano le rispettive culture in millenni di storia in cui si sono quasi ignorati; credono nelle cinque maggiori religioni oltre a decine di minori; dividono redditi diseguali oscillanti tra i 26.000 $ medi anno di USA/Europa/Giappone ed i 400 $ medi anno di Cina/India/Indonesia; hanno aspettativa di vita inferiore a 60 anni per i Paesi poveri per raggiungere gli 80 di quelli ricchi, per non parlare dei denutriti cronici che in America Latina, pur decrescendo, sono ancora 40 milioni mentre in Africa ed in Asia superano per ciascun continente i 320 milioni di persone, principalmente bambini, anche se questo valore in Asia sta progressivamente calando ed in Africa drammaticamente salendo.
La fame mondiale di energia fa convergere interessi economici e finanziari giganteschi tali da influenzare la politica internazionale e gli equilibri politici. Tutti elementi di grande complessità sociale evidenziati anche da numerose guerre che rendono il quadro generale talmente imprevedibile da rendere possibili solo considerazioni connesse ai massimi sistemi e previsioni di medio breve termine. Lo scenario mondiale è quindi estremamente difficile da leggere perché varia notevolmente a seconda del punto di vista con cui lo si approccia, ma non può essere ignorato anche se la scala dei valori e delle priorità riferibili alle singole Nazioni o Confederazioni è realisticamente diversa.
Difficile di conseguenza il compito delle classi dirigenti locali che, secondo una indagine svolta in Italia sui nostri manager, presentano da noi una triplice debolezza.
La prima è quella di una risposta alla crisi non sempre adeguata, spesso confusa e in ordine sparso.
La seconda è una eccessiva autoreferenzialità locale, nonché una riconosciuta difficoltà, più volte ricordata, di praticare la cooperazione tra segmenti diversi di classe dirigente per i comuni obiettivi del territorio.
La terza è che non si persegue con chiarezza e con l’impegno necessario l’obbligo primario della classe dirigente, quello di generare nuova classe dirigente, con il corollario della ben nota riluttanza a promuovere effettivamente i giovani talenti presenti sul territorio.
Ma oltre i limiti e le debolezze, i territori italiani conservano grandi patrimoni di risorse.
Primo, una capacità di reazione alla crisi da parte del tessuto imprenditoriale, che ha dimostrato concretezza e tenacia, pur attraversando talvolta situazioni anche molto difficili non solo a causa della “nebbia cognitiva” di cui sopra, ma anche dell’incapacità sistemica di sviluppare sul territorio i modelli di coordinamento più adeguati.
Secondo, il valore della produzione locale rispetto alla rendita, che ha costituito almeno fino al 2010 un elemento di tenuta della ricchezza delle famiglie e delle imprese, nonché dell’occupazione, in molti contesti locali.
Terzo, la capacità di resistenza del tessuto sociale, con comunità abituate ad “assorbire” le difficoltà e con un livello di coesione che diventa a tutti gli effetti una risorsa competitiva del sistema.

Per quanto concerne lo sviluppo economico, da cui quello sociale non può prescindere, e pur con le debite differenze tra i territori, è ormai insostenibile la frattura tra un Paese dove si risponde solo delle procedure formali, sostanzialmente chiuso verso l’esterno se non per i richiami e gli obblighi che l’Unione Europa ci impone, solo marginalmente toccato dalla concorrenza; ed un Paese dove si risponde dei risultati, aperto verso l’estero e sottoposto alla pressione della concorrenza internazionale. Oltre alle richieste di sempre, più controlli efficaci e non formalistici, meno carte da presentare e tempi certi per le risposte, dalla giustizia civile, ai pagamenti, alla concessione di autorizzazioni e permessi, un contributo all’efficienza della Pubblica Amministrazione potrebbe aversi da una maggiore mobilità (anche limitata localmente, ma estesa a amministrazioni di natura diversa – centrale/locale). Ogni mutamento che favorisca la crescita dimensionale delle imprese, ogni decisione che consenta l’attrazione di investimenti dall’estero o limiti la fuga di nostre imprese e capitali va presa presto.
La crisi attuale non impedisce che riforme anche dure, ma progettate per il futuro, si possano realizzare nel Welfare, nel fisco, nell’istruzione, nella PA., come testimonia il caso inglese. Il pericolo che si intravede per le società europee non è tanto che l’innovazione metta a dura prova la coesione sociale (anche se le recenti vicende nelle relazioni industriali italiane si possono leggere in quest’ottica), ma che la scarsità d’innovazione spinga verso un lento sgretolamento del tessuto sociale e ad una disaffezione verso la partecipazione (alla scuola, al mercato del lavoro, alla politica, ecc). Sotto questo profilo, è incoraggiante che emergano nuove visioni presso le classi dirigenti italiane, sulle forme di rappresentanza, sull’attenzione alla formazione anche se quello della scuola resta un nodo in gran parte irrisolto, sul raccordo tra attori sociali senza sempre invocare lo Stato.
Gli universi giovanile e femminile italiani, assai penalizzati in termini di occupazione, redditi, carriere, racchiudono
patrimoni di energie e intelligenze indispensabili per il futuro del Paese. Si tratta di risorse spesso poco valorizzate, ma che dimostrano una straordinaria capacità progettuale quando si apre loro la possibilità di dimostrare le loro doti. È dunque un segnale assai positivo che oggi, nel dibattito pubblico italiano, abbia finalmente conquistato spazio l’esigenza di declinare le classi dirigenti al femminile, ed in senso giovanile.
Naturalmente, occorre augurarsi che alle parole seguano presto comportamenti conseguenti, pur nel rispetto di
diverse opzioni pragmatiche.
Dare spazio ai giovani significa in concreto supportare e finanziare nuove idee di business, e favorire l’incontro
tra ricerca e impresa: il Rapporto dà conto di molte novità interessanti in quest’ambito Per quanto concerne la classe dirigente femminile, nonostante questa dimostri regolarmente di raggiungere l’eccellenza sia in ambito scientifico sia nel mondo imprenditoriale, le sue energie devono ancora pienamente dispiegarsi nel nostro Paese, e non sempre le elite locali danno buon esempio, anche rispetto al livello centrale.

La scuola ed i ritardi delle classi dirigenti italiane
A differenza di quello che accade in altri paesi europei, in Italia l’istruzione, e in particolare la scuola, stentano ad assumere un ruolo centrale nel dibattito pubblico. Manca soprattutto una visione – se non condivisa, almeno in fase di elaborazione - della funzione della scuola e dell’università, nei tre tradizionali obiettivi che vengono dati loro in una società moderna: garantire la competitività dell’economia, fungere da strumento di mobilità sociale e selezionare la classe dirigente. Vi è ormai un’ampia evidenza che il sistema di istruzione italiano stia fallendo su tutti e tre gli obiettivi appena menzionati. I confronti internazionali ci segnalano infatti che il livello medio di competenze dei nostri quindicenni - intese come capacità di applicare le conoscenze apprese a scuola a problemi della vita quotidiana – sia fra i più bassi nel novero dei paesi avanzati, sia pure con enormi differenze fra Nord e Sud: difficilmente, quindi, l’Italia potrà contare nei prossimi decenni su una qualità del proprio capitale umano all’altezza delle sfide poste dall’economia internazionale. Analogamente, sta venendo meno la funzione di “ascensore sociale”, prevista dalla nostra Costituzione, che la scuola assolve in tutti i paesi avanzati e che da noi ha assolto per grandi gruppi sociali nell’immediato dopoguerra: il retroterra sociale e culturale è infatti un fattore determinante di tutto il percorso formativo e, in particolare, della scelta dell’indirizzo di studio nella scuola secondaria, con una chiara gerarchia sociale fra licei, istituti tecnici e istituti e scuole professionali, che si riverbera nella prosecuzione all’università. Se la scuola italiana ha deficienze così marcate, perché non si trovano i rimedi? In realtà, negli ultimi anni
passi avanti sono stati compiuti. Gli esiti insoddisfacenti dei test PISA dell’Ocse hanno costretto l’opinione
pubblica, gli organi dirigenti della scuola e gli stessi insegnanti a prendere atto che la scuola italiana non è un
mondo “perfetto”, tutt’al più penalizzato dai tagli di risorse da parte del Governo, ma sostanzialmente tetragono alle influenze esterne e non assoggettabile a valutazioni sul suo operato. Da noi i raffronti
internazionali hanno avviato con molto ritardo, rispetto a paesi come la Germania e gli Stati Uniti, una
profonda riflessione sul funzionamento della scuola, ma alcuni punti fermi sembrano ormai acquisiti: gli
apprendimenti devono essere valutati almeno all’inizio e alla fine di ogni ciclo scolastico per misurare i
progressi compiuti dagli studenti; gli istituti scolastici e gli insegnanti migliori devono essere premiati; i criteri di
reclutamento e di progressione di carriera dei docenti non possono limitarsi alla sola anzianità; sostegno
didattico, orientamento e borse di studio devono far parte del bagaglio di strumenti necessario a aumentare
l’equità del nostro sistema scolastico; va reso effettivo il passaggio delle competenze dal centro (Miur) agli
istituti scolastici autonomi. Queste linee di riforma sono condivise in misura crescente, anche dagli stessi
insegnanti, eppure la scuola entra solo episodicamente nel dibattito pubblico, spesso a seguito di eventi di
cronaca legati al bullismo o alle occupazioni, e raramente come occasione di analisi dei problemi e di
discussione delle soluzioni. .
Un trend comune a tutti i paesi avanzati è infatti l’innalzamento dei livelli di istruzione verso la formazione terziaria; inoltre, le analisi confermano come la presenza di laureati in azienda favorisca l’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione. Di conseguenza, la vera scommessa per il sistema delle imprese negli anni a venire sarà quello di garantirsi persone dotate di ottime lauree e di una buona conoscenza della lingua inglese, piuttosto che manodopera tecnica.
Dal canto loro, le organizzazioni sindacali, pur mostrando particolare sensibilità ai temi dell’uguaglianza delle opportunità di accesso all’istruzione, risultano ancora prigioniere degli interessi di corporazione, per cui la priorità è garantire l’assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari, anche quando è noto che in Italia il rapporto fra insegnanti e alunni è nettamente superiore a quello degli altri paesi dell’Ocse, senza che questo determini apprendimenti superiori alla media. Ancora: al momento della riforma universitaria che ha condotto alle lauree triennali, molti ordini professionali hanno condizionato l’ingresso al possesso di una laurea magistrale quinquennale, in modo da restringere l’accesso alla professione, anziché cogliere l’occasione per favorire un allargamento della propria base intellettuale (e ridurre i futuri deficit previdenziali!).

Filiere globali e reti di impresa: nuovi modelli di relazioni banca-impresa per il “Mondo Nuovo”
Oltre a determinare l'irrompere nei mercati europei di nuovi concorrenti localizzati in paesi a basso costo del
lavoro, la globalizzazione ha prodotto l'effetto di sviluppare nuovi circuiti di conoscenza a livello mondiale. Le
dinamiche in atto nelle filiere globali impongono ai distretti la difficile sfida di far convivere gli storici vantaggi
del radicamento locale con l'esigenza di maggiore apertura ai mercati internazionali e ai nuovi circuiti di
approvvigionamento dei fattori produttivi e della produzione. Tali circuiti implicano la trasformazione delle
tradizionali reti locali in reti transnazionali, attraverso un ripensamento dei modelli di business consolidati e
delle tradizionali catene del valore. Quindi, il binomio locale/globale e i nuovi circuiti della conoscenza rendono
obsoleta la forma tradizionale dei distretti industriali italiani, che si sono sviluppati essenzialmente come reti
contestuali chiuse. La relativa chiusura di questi sistemi verso l'esterno ha costituito in passato un punto di
forza, in quanto ha contribuito a rafforzarne la coesione interna e l'identità collettiva, con il consolidamento del
cosiddetto capitale sociale. Oggi, però, questo carattere di quasi autoreferenzialità appare rischioso. Infatti, le
tradizionali economie esterne, che in passato hanno consentito a tante piccole e piccolissime imprese di
superare i limiti derivanti dalla piccola dimensione, consentono sempre meno di colmare i gap di competenze
aziendali che oggi si manifestano. I processi di aggiustamento dei distretti non sono omogenei e sono
condizionati all'apertura verso l'esterno soprattutto delle imprese distrettuali più dinamiche, che hanno
scoperto come le opportunità legate alla collaborazione con partner anche molto lontani possano essere più
vantaggiose rispetto alle relazioni con partner interni al distretto. Nei distretti dove l’evoluzione sopra descritta
è meno radicata e diffusa si registrano sempre più evidenti segnali di crisi, in termini di calo dei volumi di
produzione ed export.
I messaggi-chiave per le Pmi che emergono dal mutato contesto competitivo e dall’evoluzione dei modelli di
sviluppo territoriale sono i seguenti:
a) dai mercati esteri giunge la spinta per le imprese italiane per ridefinire le proprie strategie competitive;
b) le filiere globali impongono un ripensamento dei modelli di business e delle catene del valore tradizionali;
c) le reti di impresa possono in alcuni casi costituire un’alternativa valida rispetto all’approccio autonomo ai mercati esteri.
Cosa potrebbero fare le banche per sostenere le imprese in questa delicata fase di transizione? Per la ripresa
del ciclo economico, fornire nuovi strumenti di offerta bancaria, con una serie di prodotti disegnati specificatamente per accompagnare le aziende nella fase di ripresa: ad esempio, prestiti con caratteristiche di
grande flessibilità in termini di durata e pre-ammortamento, destinati alla ristrutturazione di immobili, o
all’acquisto di impianti o macchinari necessari allo svolgimento dell’attività aziendale; oppure prestiti per
sostenere l’assunzione di nuovi dipendenti e/o il riassorbimento dalla cassa integrazione; infine, linee di fido a
breve termine per smobilizzo crediti commerciali finalizzate ad anticipare gli incassi di crediti e contratti legati a
rapporti con la pubblica amministrazione, con adempimenti molto semplificati per le imprese creditrici.
Per la competitività e innovazione, le banche potrebbero offrire assistenza alle aziende che intendono
riattivare investimenti produttivi: ad esempio, mutui finalizzati per investimenti volti all'arricchimento del
contenuto tecnologico di prodotti, processi e/o servizi dell’impresa richiedente e/o al miglioramento
dell'organizzazione e della sua struttura aziendale; finanziamento di progetti di Ricerca & Sviluppo destinati
alla realizzazione di nuovi prodotti, processi produttivi e servizi tecnologicamente innovativi per il cliente;
infine, finanziamenti destinati agli start-up con la finalità di supportare le iniziali necessità di liquidità di
finanziamento del circolante e sostenere gli investimenti necessari all'avviamento.
Per le reti di impresa e la formazione, in collaborazione con le Associazioni di Categoria, le banche dovrebbero organizzare percorsi di costruzione o rafforzamento di reti, e percorsi destinati a giovani e
neolaureati per fornire loro le informazioni di base che occorrono a chi voglia attivare un'esperienza
imprenditoriale.

Le classi dirigenti locali e il “Mondo Nuovo”
Come si vanno rapportando le Classi dirigenti locali al dopo-crisi ed al Mondo Nuovo che ne esce? Quali
rappresentazioni forniscono delle trasformazioni in corso, delle risorse e dei modelli adottati nei territori ove
operano, e della loro stessa adeguatezza come dirigenti? E come vengono affrontati i temi della atavica
frammentazione delle Classi dirigenti italiane, nonché del loro aggiornamento, apertura verso l’estero,
“svecchiamento”?
La crisi è stata ormai largamente incorporata nell’immaginario sociale delle comunità locali italiane ma le
classi dirigenti hanno ancora difficoltà a gestire “l’era delle aspettative decrescenti” (Krugman). La domanda
principale che le classi dirigenti locali debbono porsi, infatti, è come gestire in modo progressivo e non
regressivo, il ridimensionamento delle aspettative sociali, ovvero come evitare di piangersi addosso ed
investire le risorse che esistono sui territori in modo innovativo, per catturare le opportunità del Mondo Nuovo,
preservando e alimentando la coesione sociale e le forme partecipative che costituiscono un patrimonio non
secondario della “provincia” italiana. Naturalmente la domanda non ammette risposte facili, né pigramente
riproducibili da una realtà locale alle altre. Al tempo stesso, parziali, possibili risposte esistono, ad esempio, occorre mobilizzare gli estesi patrimoni privati presenti sui territori italiani, con nuove forme di finanza che prevedano rischi e vantaggi esplicitamente partecipati e suddivisi tra imprese, banche, grandi investitori e famiglie, per rendere davvero efficace uno dei nostri punti di forza, ovvero una notevole - anche se purtroppo sempre più concentrata - ricchezza privata a fronte del debito pubblico. Se queste ricchezze privilegiassero sempre più la rendita rispetto al rischio dell’innovazione, la conservazione rispetto alla mobilità; oppure se venissero sempre più investite all’estero, i patrimoni dei territori italiani sarebbero destinati a scemare in tempi brevi, come già segnalano da qualche tempo le statistiche della Banca d’Italia. Oppure occorre che banche e Pmi trovino nuove forme di relazione, senza sempre la spalla del sistema pubblico, con manager cosmopoliti, ma al tempo stesso esperti delle potenzialità produttive italiane e delle opportunità del Mondo Nuovo. Nuovi ruoli per le classi dirigenti vanno presto generati, ed in alcuni contesti locali potrebbe essere una nuova generazione di classe dirigente ad assumerli.
Le tre debolezze delle classi dirigenti locali, già menzionate all’inizio di questa Introduzione, accomunano i
territori italiani da Nord a Sud, con la specificità che nel Settentrione emerge una maggior sensibilità rispetto
all’elaborazione di risposte condivise e coordinate. Troppo spesso infatti le iniziative di aggregazione scontano
grandi limiti di duplicazioni e di conflittualità tra i diversi attori. L’assenza storica di un player di grandi
dimensioni che agisca da catalizzatore amplifica sovente la frammentazione dell’azione sociale
In generale, non si può sostenere che le classi dirigenti locali garantiscano prestazioni migliori di quelle centrali ma un vantaggio che permane sui territori è la maggior vicinanza dei cittadini alle classi dirigenti che agisce da pungolo.
A fronte di storiche debolezze, acuite dalla crisi, i territori italiani dispongono di risorse notevoli per affrontare
le sfide del Mondo Nuovo: dalla capacità riconosciuta di reazione alla crisi da parte del tessuto di impresa che
ha mostrato spirito di concretezza, pur attraversando di recente situazioni anche molto dure; al valore,
altrettanto riconosciuto, della produzione locale, che ha costituito almeno fino al 2010 un elemento di tenuta
della ricchezza delle famiglie e delle imprese, nonché dell’occupazione, in molti contesti; alla tenuta del
tessuto sociale, con comunità abituate ad “assorbire” le difficoltà e con un livello di coesione che diventa a tutti
gli effetti una risorsa competitiva del sistema. Si tratta, da parte delle classi dirigenti locali, di disimparare parte
del “vecchio”, e fare esperienza e pedagogia del Mondo Nuovo, per costruire ponti tra quelle risorse e le
opportunità che emergono.

Liberamente tratto da:
I territori italiani e il “Mondo Nuovo”
di Stefano Manzocchi
Ordinario di Economia Internazionale
Università LUISS “Guido Carli”
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