mercoledì 26 marzo 2008

Napolitano e gli onorevoli fannulloni

Non credo che il nostro Presidente potesse accettare un attacco alle istituzioni ammettendo una colpa, e forse l’unica, che i nostri rappresentanti politici in Parlamento non hanno. Lui lo dichiara per ragioni di ruolo e lo rispettiamo, loro lo respingono per ragioni di fatto e noi lo commentiamo.

Infatti l’impegno profuso da tutti coloro che si sono assicurati un posto da deputato o da senatore è notevole. Non facciamo di tutt’erba un fascio, ma distinguiamo tra coloro che l’hanno presa sul serio, in senso di mandato ricevuto dai cittadini, e quelli che, avendo raggiunto l’obiettivo della posizione di privilegio politico ed economico, se ne pongono il traguardo della conservazione “ab aeternum”. E’ difficile stabilire quanti siano gli uni e quanti gli altri, ma una cosa è certa: tutti sono fortemente impegnati. Una delle differenze sta nella direzione verso cui va l’impegno.
Se si appartiene alla “casta” allora dovrà essere rafforzato il proprio entourage, condividendo e ripartendo i vantaggi economico politici e rafforzando la base elettorale portando acqua al pozzo del partito. Se invece si intende essere la voce dell’elettorato e lavorare per dare un senso eticamente compiuto al mandato, forse si dovrà rispondere ad un impegno certamente gravoso e cioè rispondere alle esigenze partitico politiche ed agli impegni di valutazione delle normative, delle proposte di legge, degli aggiornamenti professionali nelle materie che si intendono normare.
Però probabilmente questi signori si troveranno a fare il lavoro che gli altri, politicamente più forti, si arrogheranno sui “media” offrendo sempre più la propria immagine ai “consumatori”. Chissà se si potessero “far parlare” i primi? Forse ci sarebbe un ricambio politico o i “consumatori” continuerebbero pedissequamente a sostenere gli anfitrioni in barba a qualunque riforma elettorale?

martedì 18 marzo 2008

La svendita di Alitalia

Come dirigente industriale mi sono domandato se la strada imboccata dal Governo sia quella di maggiore interesse per l’Italia, per l’economia italiana e per quella dell’Alitalia. Certamente non può essere sostenibile dal Tesoro la posizione di socio, quasi al 50%, dei debiti accumulati nel tempo e continuamente generati da un conto economico disastroso.

Da qui la prima domanda: se il CdA di Alitalia si fosse dichiarato, a tempo debito, incapace di affrontare la situazione, quindi dimettendosi, convocando l’Assemblea dei soci, non si sarebbero messi da tempo, in evidenza nazionale, i problemi endemici della compagnia di bandiera?
Quindi la seconda domanda: dato che il CdA abbia sempre operato secondo i dettami della politica e non della gestione economico-finanziaria, non potrebbe essere che è rimasto tranquillamente al suo posto sapendo che il socio di maggioranza relativa (il Tesoro) non aveva alcuna convenienza politica di esporsi e quindi di non far trasparire i manifesti cancri sviluppatisi in decenni di gestione politica?
Da cui la terza domanda : ma che tipo di professionalità esprime una dirigenza che, dato ma non concesso, abbia cognizione di causa nella gestione di Alitalia? A chi sono state messe in mano, per decenni, una buona parte delle imposte pagate per vederle bruciare in un pozzo senza fondo?
Proviamo ora a supporre che un CdA, apolitico, debba prendere atto della impossibilità di risanare la società Alitalia e quindi si senta responsabilizzato circa la interruzione di drenare denaro fresco ai soci ed evitare il fallimento. Si presenta agli stessi dopo aver sondato le possibilità di salvataggio attraverso una nuova compagine societaria valorizzando oltre agli assets materiali anche quelli immateriali quali la presenza sul mercato nazionale ed internazionale (le rotte), l’immagine della compagnia, il knowhow del personale altamente qualificato (abbiamo piloti tra i migliori in assoluto a livello internazionale), i centri di formazione tecnica , ecc. Sarà pur vero che le azioni Alitalia sono passate da € 24,50 ad € 0,10 ma non si può accettare che tutto ciò che esiste oggettivamente debba essere valutato poco più di un possedimento nella campagna toscana! Neppure a valore fallimentare si arriverebbe a tanto.
Sembrerebbe logico, invece……. ci si appiattisce dietro una discutibile trattativa privata, dietro ad una incomprensibile polemica che coinvolge l’hub di Malpensa, dietro un’acquiescente sindacato che troppo tardi decide di essere tale dopo aver accettato da sempre la comoda posizione di favori sindacal-economico-politici, dietro un momento politicamente adatto a far ….del fumo.Sarà una coincidenza ma nel recente passato Prodi non aveva già legato il suo nome a delle “svendite per il risanamento del Paese”? E’ brutto trovarsi a pensare come la storia non insegni mai niente a nessuno, ma è possibile che dirigenti professionali e deontologicamente operanti siano fautori di fenomeni come questi che continuiamo a vivere peraltro a nostre spese?

lunedì 10 marzo 2008

Se eri un bambino negli anni 50, 60 o 70... Come hai fatto a sopravvivere?

Se eri un bambino negli anni 50, 60 o 70... Come hai fatto a sopravvivere?
>1.- Da bambini andavamo in auto che non avevano cinture di sicurezza né airbag...
>2.- Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata speciale e ancora ne serbiamo il ricordo.
>3.- Le nostre culle erano dipinte con colori vivacissimi, con pitture a base di piombo!
>4.- Non avevamo chiusure di sicurezza per i bambini nelle confezioni dei medicinali, nei bagni, alle porte.
>5.- Quando andavamo in bicicletta non portavamo il casco.
>6.- Bevevamo l'acqua dal tubo del giardino, invece che dalla bottiglia dell'acqua minerale...
>7.- Trascorrevamo ore ed ore costruendoci carretti a rotelle ed i fortunati che avevano strade in discesa si lanciavano e, a metà corsa, ricordavano di non avere freni. Dopo vari scontri contro i cespugli, imparammo a risolvere il problema. Si, noi ci scontravamo con cespugli, non con auto!
>8.- Uscivamo a giocare con l'unico obbligo di rientrare prima del tramonto.
>9.- La scuola durava fino a mezzogiorno arrivavamo a casa per pranzo . Non avevamo cellulari... cosicché nessuno poteva rintracciarci. Impensabile!
>10.- Ci tagliavamo, ci rompevamo un osso ma non c'era alcuna denuncia per questi incidenti. La colpa non era di nessuno se non di noi stessi.
>11.- Mangiavamo biscotti , pane e burro bevevamo bibite zuccherate e non avevamo mai problemi di soprappeso, perché stavamo sempre in giro a giocare...
>12.- Condividevamo una bibita in quattro... bevendo dalla stessa bottiglia e nessuno moriva per questo.
>13.- Non avevamo Playstation, Nintendo 64, X box, Videogiochi televisione via cavo con 99 canali, dolby surround, cellulari personali, computers, chatroom su Internet ... Invece AVEVAMO AMICI.
>14.- Uscivamo, montavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa dell'amico, suonavamo il campanello o semplicemente entravamo senza bussare e lui era li e uscivamo a giocare.
>15.- Si! Li fuori!, Nel mondo crudele! Senza un guardiano! Come abbiamo fatto?. Facevamo giochi con bastoni e palline da tennis formavano delle squadre per giocare una partita; non tutti venivano scelti per giocare e gli scartati non subivano alcuna delusione che si trasformava in trauma.
>16.- Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dallo psicopedagogo nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né di iperattività; semplicemente si ripeteva l’anno e si aveva una seconda opportunità.
>17.- Avevamo libertà , fallimenti , successi, responsabilità ...ed imparavamo a gestirli. La grande domanda è: Come abbiamo fatto a sopravvivere? e, soprattutto, ad essere le grandi persone che siamo ora.
>Appartieni a questa generazione? Se la risposta è si, allora invita i tuoi conoscenti a leggere perché sappiano come eravamo prima............
>Sicuramente diranno che eravamo dei noiosi, però siamo stati molto felici ed abbiamo imparato a vivere!

giovedì 6 marzo 2008

Le nomine dei dirigenti pubblici

Affidamento, mutamento e revoca degli incarichi di direzione di uffici dirigenziali nella Pubblica Amministrazione


La Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica, ha emanato la Direttiva 19 dicembre 2007, n. 10, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 47 del 25 febbraio 2008, recante “Affidamento, mutamento e revoca degli incarichi di direzione di uffici dirigenziali”.
Questi, in estrema sintesi i criteri stabiliti dalla Direttiva.
È fatto obbligo alle singole amministrazioni di assumere la relativa determinazione con trasparente ed oggettiva valutazione della professionalità e delle caratteristiche attitudinali.
Il decreto legislativo n. 165 del 2001, (art. 19 comma 1), stabilisce, infatti, che «si tiene conto (…) delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro».
Il medesimo art. 19 (commi 4-bis e 5-ter) prevede altresì che i criteri di conferimento degli incarichi di livello dirigenziale tengano conto delle condizioni di pari opportunità, evitando ogni forma di discriminazione circa il numero, la tipologia degli incarichi e le connesse implicazioni retributive e di responsabilità.
È quindi opportuno che le amministrazioni si dotino preventivamente di un sistema di criteri generali per l’affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi, al fine di consolidare anche in questo settore la trasparenza e favorire la fiducia dei dirigenti nel funzionamento dell’organizzazione.
Le amministrazioni che non l’abbiano ancora fatto devono provvedere quanto prima, e comunque entro il primo semestre del 2008, ad adottare il provvedimento di determinazione dei criteri di conferimento, mutamento e revoca degli incarichi dirigenziali.
Ecco alcuni aspetti che dovrebbero essere considerati nell’ottica di una corretta procedura:
a) Individuare gli strumenti adatti a realizzare un’adeguata pubblicità relativamente ai posti di funzione vacanti;
b) individuare il dirigente che abbia le caratteristiche più rispondenti e la professionalità più idonea per svolgere l’incarico;
c) agire in base ad una programmazione, evitando la creazione di vacanze e di eccedenze.
Il primo aspetto risponde alla necessità di perseguire l’efficienza.
Quanto al secondo aspetto, l’attribuzione dell’incarico deve essere il risultato di una valutazione che tenga conto (tra gli altri fattori) dei risultati di gestione conseguiti, e l’esperienza professionale acquisita.
Riguardo al terzo aspetto indicato, deve essere posta una particolare attenzione per evitare eccedenze, valutando in modo oculato gli affidamenti a personale non dirigenziale o a dirigenti non appartenenti al ruolo, che non debbono pregiudicare la posizione del personale dirigenziale di ruolo.
Infine, è necessario che le procedure relative alla conferma e soprattutto al conferimento di nuovi incarichi, siano attivate con un congruo anticipo.


Questa direttiva sembra aver scoperto e quindi stia correndo ai ripari, circa la nomina a dirigente secondo meriti non professionali, visto che sottolinea la necessità che le competenze debbano essere individuate secondo necessità funzionali e verificate nei curricula dei candidati.
Di positivo si può evidenziare la presa di coscienza del Governo e la volontà nella Direttiva di intervenire, ma…..
Purtroppo c’è sempre un “ma…”
Ma se la “casta” non sembra avere competenze dirigenziali, vedi cinquanta anni di mal governo e di consolidamento degli interessi politici individuali o partitici, da chi e come potranno essere individuati dei criteri obiettivi ed anche autocritici ed un sistema di valutazione meritocratico?
A titolo di esercizio, provate a verificare come vengano realizzate le nomine dei Direttori Generali delle Aziende Ospedaliere in barba alle direttive messe in essere da dieci anni che prevedevano pressoché “in toto” il sistema delle competenze e delle professionalità dei candidati !! In pratica se la Giunta Regionale è di sinistra, lo è anche il Direttore Generale e se cambia il colore della Giunta cambia il Direttore Generale! E la professionalità, gli obiettivi, l’efficienza?
Purtroppo temo che, al di là delle belle cose scritte, l’Italia si confermi un Paese di grandi scrittori e di abili politicanti ma che il cambiamento atteso sia ben lungi dal poter essere concretamente attuato.

mercoledì 5 marzo 2008

Management made in Italy

La specificità del modello manageriale italiano, il ruolo della formazione continua nella determinazione e sviluppo delle imprese e della professionalità è l’ affascinante tema su cui sviluppare un dibattito.

La ricerca - promossa da Fondirigenti e realizzata in collaborazione con la Facoltà di Economia dell’Università Luiss G. Carli, l’Università C.Cattaneo LIUC ed il Centro Studi di Confindustria – riguarda l’analisi e la valutazione dei punti forti e delle criticità del modello imprenditoriale e manageriale del sistema delle piccole e medie imprese. Queste rappresentano il 99,9% delle aziende italiane; l’82,2% dei dipendenti e contribuiscono per il 72,5% del PIL, ma con una forte criticità in quanto su 19.515 aziende 15.005 hanno meno di tre dirigenti, 3332 meno di dieci e solamente 519 più di venti.

E’ importante definire un modello di competitività radicato sul territorio, in cui sia l’imprenditore sia il management possano riconoscersi per fare sistema contro il declino e che sia applicabile a tutti i settori imprenditoriali.
La ricerca mette in evidenza i limiti metodologici che rendono difficoltosa la rilevazione delle competenze all’interno delle organizzazioni e della necessità di contestualizzare la definizione delle competenze sulla base delle caratteristiche organizzative ed ambientali. Ad esempio il sistema istituzionale, il contesto territoriale, la cultura e le caratteristiche sociali sono alcuni dei fattori che influiscono sul modello manageriale ovvero sui comportamenti. Infine gli interventi formativi debbono essere inseriti tra gli strumenti di sviluppo che hanno come base la consapevolezza del mix di competenze richiesto dal ruolo.

La competenza può essere traducibile in comportamenti lavorativi osservabili e, pertanto, misurabili (rendimento della mansione) e, posto che “il grado di successo dell’impresa è l’effetto del modello di competenza... e non la causa”, appare opportuno chiedersi cosa influenzi la determinazione di un “modello italiano” di management e di organizzazione di impresa, i fabbisogni di competenza per fare fronte alle nuove sfide.

Un particolare aspetto riguarda la sovrapposizione tra ruoli imprenditoriali e manageriali che da sempre denota una caratteristica distintiva italiana; nelle piccole e medie aziende le carriere si sviluppano lungo la dimensione verticale, orizzontale e radiale attraverso la mobilità. L’indagine, seppure in modo contraddittorio, evidenzia che sovente i manager di successo maturano una esperienza di lavoro attraverso la combinazione delle tre direttrici di carriera, mentre le carriere della dimensione orizzontale contribuiscono alla diversificazione delle competenze e quindi diminuiscono il rischio di obsolescenza.
La mobilità interaziendale rappresenta per il manager la prosecuzione di un percorso di carriera che valorizza le competenze acquisite precedentemente.

Per quanto riguarda i rapporti tra proprietà e management – si parte dal classico modello di impresa polarizzato su due fronti: Imprese Familiari e Imprese Manageriali che hanno caratterizzato rispettivamente la prima era industriale e la grande impresa, connotati da diversità di comportamenti e dei fattori organizzativi.
Uno dei punti di interesse per la ricerca è l’esame di casi di imprese caratterizzate da capitalismo familiare che presentano performance di successo in Italia ed all’estero tentando di dare una risposta se in questi modelli i fattori di competitività strategico aziendale e le competenze manageriali risultino variabili allineate o indipendenti tra di loro.
Fondamentale appare l’elemento fiduciario e personale che condiziona sovente la scelta dei collaboratori, i metodi di gestione e di valutazione.

Bisogna condividere il valore del lavoro e della continuità dell’impresa, del suo mondo, delle sue regole per poter instaurare un rapporto solido e fiduciario con l’ imprenditore.
Il territorio si configura quale risorsa insostituibile in qualità di custode dei saperi tecnico produttivi, del sapere ambientale, di modelli storico-culturali e diventa per il sistema produttivo locale, fattore di coesione, di identità di attivatore di sinergie e reti.
La condivisione dello stesso ambiente di vita (scuola, quartiere, abitudini) con la comunità degli altri membri dell’azienda si trasforma in un potente meccanismo partecipativo.

Le caratteristiche che emergono per il modello italiano di management sono stretta integrazione tra funzioni imprenditoriali e dirigenziali; diffusione della cultura manageriale/dirigenziale; forte legame con il territorio, le reti (sociali, familiari, ...); prevalenza di meccanismi informali/implicit per la gestione, organizzazione e formazione.
I punti di forza sono: polivalenza, interdisciplinarietà, specificità aziendali; prevalenza delle competenze sulle qualificazioni; capacità di incidere sull’organizzazione, innovazione, orientamento all’utenza; flessibilità organizzativa: poche procedure e regole formali, poca burocrazia; capacità relazionali.

Analizziamo anche i punti di debolezza: forte limite di capacità tecnico professionali in aree specifiche: finanza, logistica, risorse umane; ridotte opportunità di mobilità verticale, orizzontale; difficoltà a internazionalizzare; difficoltà di ricorso al capitale di rischio e finanza innovativa; scarsa trasparenza e condizionamenti extra business (familiari, di contesto politico locale, ecc.) e potenziali conflitti di interesse.

QQQ




Questo modello si sta modificando a causa dei continui cambiamenti: crisi della grande impresa; integrazione europea e globalizzazione (il manager italiano è e dovrà essere anche europeo); crisi del sistema di istruzione, università e ricerca; crisi dei sistemi nazionali e locali di competitività ed innovazione; vincoli manageriali alla crescita dimensionale delle imprese, ecc..

Per i relatori questo modello italiano potrebbe essere “esportato” anche nei paesi del nord Africa, Grecia, nei Balcani, in quanto si adatta meglio dei modelli anglosassoni e quindi potrebbe contribuire alla creazione di posti di lavoro manageriali.

Alcune riflessioni personali a margine della stimolante ricerca.
La prima: nel modello non vi è traccia di un comportamento etico che possa identificare il management made in Italy. Soprattutto, dopo i recenti avvenimenti Parmalat e Cirio, questo lascia perplessi.
La seconda riguarda la mobilità orizzontale in cui sarebbe meglio parlare di necessità tecnico-organizzative che fanno presidiare queste aree da uno stesso manager. La dimensione dell’impresa infatti è tale da non giustificare, dal punto di vista dei costi, altri manager.

La terza riguarda il punto di forza, il rapporto fiduciario proprietà - manager nelle piccole e medie aziende. La cultura familiare dell’imprenditore intesa come sistema di idee, valori, dinamiche familiari e aziendali, la radicalizzazione sul territorio si trasformano in criticità, in quanto il manager “non di casa” viene rifiutato e questo indipendentemente dalla capacità, professionalità ed esperienze personali.Provare per credere, come diceva una felice battuta in uno spot pubblicitario!