sabato 15 gennaio 2011

Fiat Mirafiori, il referendum di lavoratori ……… strumentalizzato?

Tutti sappiamo che hanno vinto i SI con il 54,7% ed i NO si sono fermati 45,3%. Il voto degli impiegati avrebbe fatto da ago della bilancia anche se il cosiddetto “voto operaio” ha registrato un sostanziale pareggio con 9 voti in più per il SI. Gli impiegati sono 460 e gli operai 5.040 quindi rispettivamente il 8,4% e 91,6%. La differenza che fa vincere il SI è stata del 9,4% e quindi non potendo logicamente affermare che tutti gli impiegati abbiano votato per il SI occorre rilevare che le posizioni in campo operaio si siano quantomeno equivalse con leggera prevalenza dei SI.
Ma leggendo i commenti dei responsabili sindacali sembra di essere ritornati a quelli dopo le elezioni politiche di un tempo: tutti hanno vinto.

Landini della FIOM :”…risultato straordinario…. Riaprire una trattativa vera….”.
Airaudo, FIOM: “….. CGIL apprezzerà l’accordo… sciopero generale contro l’accordo”
Cremaschi del Comitato Centrale FIOM: “l’ A.D. non ha più gli operai con sé….. anche in condizioni di fascismo e oppressione i lavoratori hanno detto NO,” criticando la CGIL.
Camusso, CGIL : …il voto conferma che non si possono più governare le fabbriche senza il consenso dei lavoratori…”
Vendola, Sinistra e libertà : “… per Marchionne vittoria più amara e per il NO sconfitta gratificante.. apre una stagione di lotta per i diritti di chi lavora…”
Angeletti e Vitali : “..decisione sofferta ma hanno vinto le ragioni del lavoro. Ora si può guardare al futuro con ottimismo..”
Fin qui, se tutti i commenti appartenessero a politici, nulla di nuovo. Infatti Vendola è salito sul carro lasciato libero da Bertinotti e cavalca la situazione per conquistare voti per le non più tanto lontane elezioni politiche.
Essere d’accordo sul suo messaggio è una questione molto soggettiva ma comunque rispettabile. Ben altre considerazioni nascono dall’ascoltare i commenti dei sindacalisti FIOM che invece si comportano da politicanti prescindendo forse dal dovere nei confronti dei loro rappresentati. Innanzitutto c’è da chiedersi con quale dignità ci si possa considerare estromessi dall’accordo sottoscritto dalle altri rappresentanze sindacali dopo aver volontariamente abbandonato il tavolo delle trattative e rifiutato di rientrarvi. Con quale serietà si possa poi dire di essere lì a tutelare i diritti degli operai rifiutando la trattativa per poi asserire che non “era vera”. Questo perché gli altri hanno raggiunto un accordo “sofferto” e ci si è trovati presi in contropiede per aver voluto eternare atteggiamenti sindacali del secolo scorso? Mancanza di realismo nel non voler vedere i cambiamenti dei tempi e persistere “nella lotta contro i padroni e far vedere loro chi conta nelle fabbriche”? Negli anni ’70 tutti i sindacati uniti incitavano a questa lotta e ventilavano, provandoci, ad occupare le fabbriche per ribaltare il dominio dei padroni. Non ne uscì niente allora e niente ne uscirebbe adesso se non una ulteriore spinta alla migrazione dei capitali e delle delocalizzazioni delle attività produttive. Certamente la bandiera del NO sventolata come si legge su MicroMega “Firma l’appello di Andrea Camilleri - Per una società civile con la FIOM” e sottoscritta da noti personaggi della cultura teatrale e dello spettacolo, sottolinea la persistenza di ideologie comuniste radical-chic. Tutte persone ben lontane economicamente dalla realtà di quegli operai che si dichiara di sostenere. E’ preferibile credere nella semplicità di chi, faticando davvero sulle linee di produzione, si lascia convincere da sindacalisti e masse urlanti non potendo certo capire o condividere il pensiero di un Marchionne lontano mille miglia da quella cultura. Possono gli obiettivi di un imprenditore coincidere con quelli di un lavoratore dipendente? Su un unico punto, entrambi lavorano per lucro. Il confronto quindi è nel soddisfare questa condizione equilibrando, con aggiustamenti progressivi ed infiniti, in un tempo che evolve a velocità supersonica, le esigenze degli uni e degli altri. Obiettivo che, come tutti i veri obiettivi, non si raggiunge mai e resta una tendenza su cui si deve perseverare. Non è credibile che gli altri sindacati non abbiano imboccato questa politica e forse lo hanno dimostrato restando dentro. FIOM forse ha sbagliato chiamandosi fuori o forse ha solo seguito la propria visione del modo di ottenere risultati; non il dialogo, non la trattative anche estenuante, non la politica del passo dopo passo ma del tutto e subito se no la lotta sociale. Marx ed Engel ringraziano dalla tomba per essere ricordati con tanto fervore, ma loro hanno sviluppato le loro dottrine in tempi e situazioni diverse dando un positivo contributo al cambiamento dei rapporti tra datori e prestatori d’opera.
La internazionalizzazione e la globalizzazione sono una realtà di oggi e con quella ci si deve confrontare. Non sono evoluzioni socio-economiche da considerare né in maniera demoniaca né come panacea, sono fenomeni di altissima complessità che stanno cambiando il mondo che ci piaccia o no . Forse sarebbe meglio allargare anche la propria visione, quando si hanno delle responsabilità così importanti, e cominciare a smetterla di usare dei clichet quali “i poveri operai”, gli “impiegati servi del padrone”, “lavorare in condizione di fascismo ed oppressione” per ottenere facili consensi. A titolo di cronaca proviamo a guardare come si sono evoluti i sistemi socio-economici di USA e Germania dove i lavoratori, adeguatamente rappresentati, partecipano alla gestione del sistema economico insieme ai datori di lavoro. Ma forse per noi è troppo presto, magari c’è troppo garantismo e poca cultura sociale. Per inciso, a me Marchionne non è che piaccia molto, ma capisco che, nel silenzio assordante della politica irresponsabile dei partiti, abbia trovato o dovuto trovare la strada di un inizio di riforma del lavoro sepolta tra le scartoffie del Parlamento italiano.

venerdì 7 gennaio 2011

Italia, 150 anni di storia, 150 anni di managerialità e ……. i prossimi?

Il nostro Paese ha iniziato a ricordare, festeggiando, il compimento dei suoi primi 150 anni di storia partendo dal suo simbolo, il tricolore nato il 7 gennaio 1797. Con tutto il rispetto dovuto all’identificazione che ne fa l’articolo 12 della nostra Costituzione ed alla definizione tecnica stigmatizzata dal Decreto Legge per quanto riguarda i codici RAL dei singoli colori, mi piace identificarla così come hanno fatto tre poeti:

« Su i limiti schiusi, su i troni distrutti
piantiamo i comuni tre nostri color!
- Il verde la speme tant'anni pasciuta,
- il rosso la gioia d'averla compiuta,
- il bianco la fede fraterna d'amor. »
(Giovanni Berchet, All'armi all'armi!, 1831)

« I tre colori della tua bandiera non son tre regni ma l'Italia intera:
- il bianco l'Alpi,
- il rosso i due vulcani,
- il verde l'erba dei lombardi piani. »
(Francesco Dall'Ongaro, Garibaldi in Sicilia, maggio 1860)

« Sii benedetta! benedetta nell'immacolata origine, benedetta nella via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre, nei secoli! Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all'Etna;
le nevi delle alpi,
l'aprile delle valli,
le fiamme dei vulcani.
E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e si augusta:
- il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l'anima nella costanza dei savi;
- il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de' poeti;
- il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi.
E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch'ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà! »
(Giosuè Carducci, Discorso venuto per celebrare il 1º Centenario della nascita del Tricolore, Reggio Emilia, 7 gennaio 1897)

mi sono piaciute perché sono l’espressione sia pure poetica dei valori di quegli uomini, di quella società propedeutica alla realtà di oggi anche se il Risorgimento italiano fu il risultato di una serie di fortunate combinazioni, il coraggio incosciente di un grande sognatore che sfruttò la tendenza a tirare a campare della dominazione borbonica e l’enorme sagacia politica da parte di uno statista piemontese. Le idee liberali, le speranze suscitate dall’Illuminismo e i valori della Rivoluzione francese furono alla base dello Stato unitario. Unito da una Costituzione, da una lingua comune e dai sentimenti verso l’unica bandiera ma costantemente diviso dalla propria storia, dalla cultura dei secoli precedenti. Nato e visto come uno stato federale è ancora incompiuto. In questa realtà si è sviluppato il sistema economico italiano impostato su centinaia di migliaia di aziende familiari.
Questa realtà è sopravvissuta a 150 anni di storia attraversando due guerre mondiali, adattandosi alle innovazioni tecnologiche ed a cambiamenti politici e sociali intervenuti nel corso di questo lungo lasso di tempo in numero superiore ai precedenti secoli di storia italiana. Una tenuta prodigiosa, segno di una solidità di fondo e di una conformazione corretta ed equilibrata del tessuto sociale ed economico e della convivenza civile.
Quale elemento ha consentito questa sopravvivenza? Forse è stata la formazione di una cultura.
Ci troviamo di fronte ad un grande esempio di come una diffusa cultura popolare abbia saputo difendere e propugnare ed elaborare un modello eccellente di società. Il contenuto di questa cultura è riassumibile in due caratteristiche salienti.
La prima di queste è l’evoluzione delle conoscenze e del sapere. Non è sbagliato pensare che sin da allora nel centro-nord, proprio per il tipo di attività svolte, vi fosse un alto e diffuso livello di istruzione, di formazione e di ricerca. Occorreva inevitabilmente conoscere la matematica e sapere scrivere in italiano per gestire il proprio lavoro quotidiano. Credo infatti che i nostri avi si siano dovuti confrontare con le medesime problematiche delle nostre aziende moderne, tenuto conto delle ovvie diversità di epoca. Anche loro dovevano imparare a produrre, scrivere preventivi e fatture, studiare nuovi prodotti e apprendere nuove tecniche. La necessità di essere sempre presenti in maniera efficace sul mercato ha spinto inevitabilmente tutta la società di allora a dare impulso all’istruzione, per raggiungere il livello necessario alla vita economica quotidiana ed alla sua evoluzione nel tempo. La formazione dei giovani, dopo un breve periodo scolastico in cui imparavano gli elementi di base, era curata soprattutto all’interno delle botteghe, dove si poteva accrescere sul "campo" le proprie conoscenze tecniche lavorative, apprendendo senza dubbio anche le nozioni necessarie per condurre un’impresa. La nostra attuale cultura aziendale e la capacità manageriale di condurre aziende, anche di alto livello, traggono origine sicuramente da questa lunga storia di presenza economica nei nostri territori.
La seconda caratteristica di questa cultura è meno scontata della prima ma più importante: è la mentalità che guida la realizzazione di un’opera. E' l’idea dell’azienda, intesa come la costruzione di un’opera, il suo successivo mantenimento nel tempo e la sua difesa a tutti costi quando necessario. Questa idea ha attraversato 150 anni di storia ed è arrivata a noi nello stesso modo in cui era intesa all’inizio. Quante volte abbiamo visto passaggi delle aziende dai padri ai figli e dai figli ai nipoti; quante volte si è sentito dire che il proprio patrimonio era nell’azienda, quanti ragazzi di bottega sono successivamente diventati a loro volta piccoli o grandi imprenditori. Questa volontà di curare e fare prosperare la propria azienda ha creato continuità e stabilità straordinarie, permettendo all’apparato economico di portarsi sino ai nostri giorni. Non era affatto scontato che quel complesso di attività che rappresentava un microcosmo economico potesse sopravvivere a 150 anni di storia. E’ stata proprio la percezione dell’azienda come opera della propria vita che ha consentito alle attività, avviate da quelle antiche aziende, di attraversare i decenni ed arrivare, trasformate e modernizzate, ai nostri giorni. Recentemente un sito internet ha pubblicato la lista di 10 aziende americane, tuttora operative, che hanno pagato dividendi ai loro azionisti per cento anni. Il medesimo sito ha pubblicato l’elenco di quelle che hanno pagato per ottanta anni e così via.
Questa idea di continuità e di preservazione dell’azienda, tipica dell’imprenditoria italiana, è simile a quella che nell’economia degli Stati Uniti ha creato una ricchezza immensa nel corso del secolo scorso. E’ diverso il contesto finanziario e le dimensioni, ma l’idea di continuità di fondo è la medesima.
In quel Paese, al contrario di noi, hanno avuto anche il sostegno di un sistema finanziario che poneva la finanza al servizio dell’attività produttiva e non viceversa. Un sistema focalizzato su chi produceva effettivamente la ricchezza e non su chi beneficiava delle attività di contorno.
E’ nata così la managerialità con il chiaro obiettivo del fare, del costruire, della responsabilità verso la società attraverso la logica del profitto da cui tutti potessero trarre il beneficio economico atteso.
Questa cultura, dapprima residente solo nella classe imprenditoriale, si è poi diffusa al livello immediatamente inferiore cresciuto per l’esigenza di dover delegare parte delle proprie funzioni e di affinare le competenze per sostenere lo sviluppo di queste iniziative che, da artigianali, divenivano industriali e commerciali. Ma purtroppo occorre sottolineare che tutto ciò si è sviluppato a due velocità. Una forte e decisa al centro-nord ed una debole e sottomessa al sud. Senza soffermarsi sulla disastrosa politica del Mezzogiorno preceduta da una visione coloniale dei Savoia, dobbiamo constatare come il brigantaggio ed il feudalesimo, evolutisi in potenze economico politiche definite “mafia, ‘ndrangheta e sacra corona unita”, siano un ostacolo allo sviluppo del sud e che nessun politico è stato capace di combattere. Dualismo quindi anche nella visione di gestione del business che nel sud diventa prevalentemente interesse di pochi a danno di molti. con i problemi che sono sotto gli occhi di tutti. Purtroppo questo tipo di managerialità si è ultimamente diffusa anche al nord come denunciato e visto nelle cronache. A rendere ulteriormente diversa la situazione ha contribuito la politica delle aziende finanziarie i cui manager si sono inseriti al comando di molte aziende industriali modificandone gli obiettivi imprenditoriali per orientarli al lucro ed al breve termine.
L’aver pensato, da parte di tutti nella nostra Nazione, di ribaltare i termini della questione e cioè che fosse il settore immobiliare e anche quello finanziario, con operazioni più o meno spericolate, a veicolare lo sviluppo economico, ci ha condotto su una strada che oggi comprendiamo non porta da nessuna parte.
L'insegnamento dei nostri avi, di questi laboriosi fondatori del nostro attuale piccolo ma ricco microsistema economico, va esattamente nella direzione opposta. E' il lavoro in tutte le sue forme che ha creato nel passato la ricchezza e che la saprà creare anche nel futuro se i manager sapranno riportare la rotta nella giusta direzione.