mercoledì 29 ottobre 2008

I Rettori delle Università minacciano di dimettersi davanti alla legge Gelmini: una minaccia o…una promessa?

Malgrado che la legge Gelmini sia di fatto un provvedimento di natura economica con lievi accenni ad una vera riforma, sembra che abbia toccato i punti delicati delle istituzioni scolastiche. Lasciamo stare gli studenti di ogni ordine e grado perché, essendo al fondo della catena, possono valutare solo in base alla loro relativa esperienza ed alle loro ideologie che, in giovane età, accendono spesso gli animi prima di dare spazio alla valutazione del contesto.

Ma i Rettori, reagendo con questa presunta azione di forza, non si accorgono che stanno confermando le critiche al sistema universitario che da anni si levano dal mondo del lavoro a causa della sempre maggiore impreparazione degli studenti diplomati o laureati?
Non leggono gli esiti delle inchieste di mercato che misurano il tempo lavorativo medio giornaliero dei loro docenti in 3,5 ore? E’ già brutto che non sappiano ciò ma è assurdo che facciano finta di ignorarlo. Se lo ignorano e se sono sordi alle contestazioni sulla mancata preparazione degli studenti, allora vuol dire che occupano posti dove non sono adeguatamente preparati a gestire.
Il mantenimento dello status quo è certamente una reazione comprensibile e di minor impegno dal cambiare e mettersi in gioco, ma, come vige in economia, chi non va avanti va indietro. Da qui il bisogno di riformare profondamente le istituzioni scolastiche partendo dalla scuola elementare, poi alla media e, attraverso la scuola secondaria arrivare alle università. Certamente un percorso non facile e non fattibile con azioni di forza unilaterali, ma coraggiosamente determinate e con una continuità che le decine di Governi che si sono succeduti in Italia, non hanno permesso, ammettendo che le si fossero volute e su questo non vi è nessuna certezza.
Un progetto così importante ed ambizioso deve divenire una priorità nazionale perché riguarda la progettazione del futuro dell’Italia o meglio degli italiani di domani.
Ho sentito dire da una docente che la Costituzione garantisce ad ognuno il diritto di frequentare l’università, ma in quale Costituzione lo ha letto? Come si possono ascoltare affermazioni senza senso come questa se non fomentare gli studenti?
Il diritto all’istruzione che l’art. 34 garantisce è reale e deve essere tutelato ad ogni costo. Le fughe dei talenti devono essere evitate per quanto possibile. Certamente gli investimenti devono e dovranno essere adeguati agli obiettivi; cioè scuole di ogni ordine e grado vere responsabili di una crescita culturale e di una riqualificazione dei diplomi e delle lauree che oggi difficilmente rappresentano con i loro titoli e voti la reale consistenza della preparazione scolastica. Riportando i docenti di ogni ordine e grado ad essere idonei a questo importante cambiamento, quindi accertandone l’idoneità alla docenza e la preparazione, responsabilizzandoli sui risultati ottenuti, mettendo gli istituti scolastici in concorrenza tra di loro per accaparrarsi le iscrizioni in base alla notorietà così creata, si genererebbe un sistema virtuoso da cui una maggiore ricchezza delle retribuzioni e delle dotazioni in termini di ricerca applicata. Un sistema in cui le attività economico industriali investirebbero con piacere e le ricerche sarebbero finalizzate a vere applicazioni sul campo generando ricchezza.

martedì 28 ottobre 2008

Dobbiamo difendere il Made in Italy e i cittadini devono conoscere la provenienza dei prodotti

I diritti del cittadino europeo devono assolutamente essere garantiti.
Ritengo sia giunto il momento per cui non sia più giusto tergiversare e l’Europa debba assolutamente assumersi le sue responsabilità.
Il cittadino, il consumatore, deve poter godere dei diritti (così come dal 1930 sono garantiti ai cittadini americani, dal 1970 a quelli giapponesi ed ora anche in Cina) che gli permettano di conoscere dove, come, in che modo, con quali trattamenti, sono stati realizzati tutti i prodotti del manifatturiero che egli ha la possibilità di acquistare in Europa.

Anche solo esaminando tutto ciò che sta avvenendo per quanto riguarda la nostra salute, è indispensabile che anche le “caste” di potere economico europeo che, con i loro concetti di globalizzazione e di libero mercato, stanno contrastando, nel loro unico interesse, che questo si avveri, facciano un passo indietro e riflettano che globalizzazione e libero mercato non devono essere intesi come mercato senza regole.
Da anni l’Italia chiede all’Europa una legge precisa che imponga che sul mercato europeo possano circolare unicamente prodotti del manifatturiero che, provenienti da Paesi extra-europei, abbiano obbligatoriamente applicata l’etichetta con il “Made in” del Paese di origine, corredata da trasparenza e tracciabilità per le operazioni di lavorazione del prodotto.
Ma ciò non basta, non è sincero e onesto nei confronti del consumatore finale perché permette, come ad esempio avviene in Italia, che tante aziende italiane facciano realizzare in tutto o in parte le loro produzioni sia in Paesi europei che in Paesi extra-europei e, quando questi prodotti rientrano in Italia, possano essere rimessi in circolazione con il nome ed il marchio di chi li distribuisce, senza l’indicazione di dove e come questi prodotti sono stati realizzati, proponendoli come prodotti italiani - anche la Cassazione accetta questo equivoco - purché le aziende abbiano sede sociale in Italia.
Il cittadino europeo deve poter saper scegliere, e solo da un’esatta informazione che garantisca per legge il “Made in” di tutti i prodotti acquistati, e non solo quelli provenienti da taluni Paesi, potrà avere la certezza di acquistare prodotti ad un equo prezzo, non gonfiato dalle speculazioni o dalle furbizie di chi ora non ha alcun interesse a far conoscere da dove questi prodotti provengono realmente.
E’ in ballo, a mio giudizio, anche il futuro dell’economia europea e di quella italiana, legata al manifatturiero, inteso come “gioielleria” europea, per i prodotti dell’abbigliamento.
L’Italia è indiscutibilmente legata alle sorti dell’Europa; così come l’Europa dovrà indiscutibilmente farsi carico dei problemi che arriveranno molto presto sul suo tavolo nel momento in cui sarà completamente distrutta, da questa commercializzazione selvaggia, la filiera, che permette alle piccole e medie imprese italiane di produrre prodotti di alto livello artigianale. Si sarà persa la tradizione del gusto, della creatività, della artigianalità italiana che hanno trovato ampio riconoscimento nel mondo.
Con le attuali leggi europee il “Made in Italy” resterà solo più un ritornello e avrà sempre meno valore sui mercati internazionali. Ciò creerà un impoverimento dell’Italia, una perdita di occupazione della sua manodopera e, conseguentemente, un aggravio notevole per l’economia europea, che dovrà farsi carico del grave disastro che l’attuale comportamento irresponsabile della governance europea ha arrecato al nostro Paese.
Queste sono le considerazioni che da lungo tempo espongo in ogni occasione dove mi è consentito di chiarire i miei concetti su globalizzazione, libero mercato, difesa dei diritti del consumatore, rispetto del saper fare della manodopera in Italia e, conseguentemente, miglioramento dell’economia italiana.
Un “Made in Italy” garantito e certificato per legge, con possibilità di maggior penetrazione su tanti mercati che ora guardano al “Made in Italy” con diffidenza, non dovrebbe spaventare in alcun modo le “caste” del potere economico europeo.
Sarebbe molto più utile, ad ognuno per le proprie competenze, sapere che dall’Italia possono essere esportati unicamente prodotti certificati per legge “Made in Italy”, anziché accettare che alcuni esportatori contrabbandino quantità enormi di prodotti fasullamente etichettati “Made in Italy”.
La mancanza di una certificazione garantita per legge penalizza le imprese italiane che producono il vero “Made in Italy” perché le loro produzioni confluiscono nel calderone di “tutto quanto” ora si esporta dall’Italia. Le aziende subiscono vessazioni e controlli doganali con costi aggiuntivi che le costringono a denunciare tutte le lavorazioni e i luoghi delle stesse fatte in Italia.
Se ancora oggi nel mondo si circola comunque con il passaporto o la carta d’identità garantita da ogni singolo Stato, perché ciò non deve avvenire anche per i prodotti che ogni singolo Stato produce?
Quale garanzia si può offrire al mondo che ci guarda e attende coerenza da chi si professa depositario della cultura e della civiltà?
Questi interrogativi che ogni coscienza pensante si pone, mi auguro facciano riflettere chi ha il dovere di operare per il bene del nostro futuro.

Luciano Barbera – A.D. Gruppo Barbera

venerdì 24 ottobre 2008

“Quote rosa” per le Manager?

“Quote rosa” per le Manager?

La scuola italiana: un fine o un mezzo? Diritto costituzionale all’istruzione

L'analisi dell'art. 34 della Costituzione impone una preliminare indagine di tipo terminologico, volta a chiarire se esiste e qual è la differenza fra diritto all'istruzione e diritto allo studio.

La necessità di tale chiarimento si spiega in ragione del differente impiego, da parte degli studiosi, dell'una o dell'altra delle due espressioni. Parte consistente della dottrina preferisce la prima, ritenendola giuridicamente più corretta rispetto alla locuzione «diritto allo studio» (Mastropasqua, Pototschnig, Ruscello); altri autori, al contrario, pur non negando la maggiore correttezza formale e giuridica dell'espressione «diritto all'istruzione», reputano più opportuno parlare di «diritto allo studio»: tale formula sarebbe più moderna e meglio esprimerebbe la nuova fondamentale funzione dell'istruzione, che non è quella di trasmettere un bagaglio culturale già acquisito, bensì quella di garantire la promozione e lo sviluppo della personalità dello studente (Atripaldi, Bruno, Meloncelli). Sicuramente interessante è poi l'orientamento di chi utilizza l'uno e l'altro dei due termini, attribuendo a ciascuno di essi un significato suo proprio (De Simone, Fancellu, Mazziotti Di Celso).Per «diritto all'istruzione» s'intende quello all'istruzione inferiore, di cui sono titolari tutti gli alunni della scuola dell'obbligo. L'espressione «diritto allo studio» indica, invece, il diritto di raggiungere i gradi più elevati degli studi, da riconoscersi non indistintamente in capo a tutti gli studenti, ma solo a quanti fra essi presentino specifici requisiti: capacità, merito, appartenenza a famiglie in condizioni economiche disagiate («privi di mezzi»); perciò si parla di diritto all'istruzione superiore.Quest'ultimo orientamento merita attenzione non solo perché soddisfa quell'esigenza di chiarezza cui poc’anzi si accennava, ma soprattutto perché trova la sua giustificazione proprio nel disposto costituzionale in esame.L'art. 34 Cost., infatti, dà fondamento al diritto all'istruzione nel suo secondo comma; il diritto allo studio si deduce, invece, dalla formulazione del comma successivo.
Si direbbe che, nell’avvicendarsi di riforme incompiute, si sia voluto congiungere queste due espressioni portando ideologicamente, anche se democraticamente, tutti i giovani sullo stesso piano. Purtroppo la realtà umana è altra cosa e ciascuno di noi si differenzia dagli altri. La valutazione del merito che possa portare ciascuno ad ottenere il meglio di sé da un percorso formativo, è certamente da deputarsi alla scuola dell’obbligo, ma ciò avviene? Sembra piuttosto che una gran parte delle famiglie italiane si sia posta l’obiettivo di portare al massimo livello educativo possibile i figli e ciò indipendentemente dalle loro capacità. L’intenzione è lodevole ma i risultati modesti. Infatti la maggioranza degli iscritti alle varie (troppe) discipline universitarie non completa il percorso di studi o entra nello stuolo dei “fuori corso”. La conseguenza è quella di avere giovani tra i 20 ed i 30 anni che hanno solo “perso del tempo” e le famiglie “perso molto denaro”. Soprassedendo sull’aspetto economico, si apre il grave problema del giovane che rimane frustrato dalla negatività degli esiti di studio, dallo squilibrio tra la sua documentabile istruzione e l’età che lo pone in competizione con altri più giovani di lui e più motivati o con coloro di poco più “anziani” ma con titoli di maggior valore. Quindi maggiori difficoltà di occupazione.
Ma a tutto ciò si aggiunge la scarsa preparazione scolastica che fin dalle scuole elementari, per arrivare alle stesse università, penalizza una adeguata formazione.
Alcuni decenni fa il nostro sistema scolastico si poneva ai vertici delle graduatorie mondiali ed ora, a poco a poco, è precipitato a livelli inimmaginabili. Per chi si occupa di selezione di personale a fini di assunzione aziendale questo è un grave problema in quanto il voto di diploma o di laurea non rappresenta più una referenza né tanto meno lo è il nome dell’Istituto che lo ha certificato.
Ben venga quindi una riforma del sistema educativo ma che si riporti all’obiettivo primario di formare i nostri giovani in base ai loro meriti, di ottenere una preparazione adeguata alla disciplina scelta ed al mercato di destinazione, alla realtà di non sfornare un esercito di dottori, ingegneri, professori, medici, avvocati non occupabili nel sistema economico.
Se poi vogliamo giustamente guardare alla scuola come luogo di lavoro di molti, allora, nelle forme e nei modi che evitino un tracollo immediato dei redditi derivanti, occorre riportare all’insegnamento solo coloro che ne abbiano le capacità e le competenze. Credo che insegnare sia un compito di grande difficoltà e responsabilità e quindi debba essere adeguatamente remunerato in termini meritocratici. Ma non può essere lasciato alla discrezione individuale di chi abbia pensato di “andare ad insegnare” per garantirsi uno stipendio sicuro ed un ridotto numero di ore lavorative. Facendo un parallelismo, dopo le Poste Italiane, le Ferrovie, la Sanità, le Banche, l’Alitalia anche la Scuola ha dimostrato di essere uno degli ultimi feudi di un sistema statalista inefficiente abbandonato a sé stesso dove politici e sindacati hanno sguazzato favorendo gli interessi personali a danno degli incolpevoli studenti e quindi del sistema Italia. Risalire la china sarà difficile e richiederà molto tempo e molto denaro, ma la strada da seguire sembra inesorabilmente tracciata, con o senza Gelmini.

lunedì 20 ottobre 2008

Crisi delle banche, impatto del piano europeo e crisi economica = povertà in aumento, crescita dell’instabilità sociale?

Sono molti gli interrogativi che ci poniamo di fronte alla ricaduta sull’economia reale di questo terremoto finanziario. L’economista dr. Tito Boeri ci espone un suo commento.
Tratto dal sito : www.lavoce.info.

Il piano europeo per uscire dalla crisi va nella giusta direzione. Ma potrebbe incontrare l'ostilità dell'opinione pubblica, per le ingenti risorse pubbliche dirottate verso un sistema bancario che negli ultimi dieci anni ha realizzato enormi profitti. Tre proposte a vantaggio dei cittadini europei: aumentare la concorrenza nel sistema bancario per ridurre i costi e migliorare i servizi. Prevedere un programma di aiuto per famiglie in difficoltà con le rate del mutuo. E riduzioni fiscali per i redditi più bassi. Servirebbe anche a rendere la recessione meno duratura.
I leader dei paesi dell'area euro, alla fine, sono riusciti a trovare l'accordo su un piano. Ed è un piano molto ambizioso: dovrebbe mettere fine a quelle profezie che si auto-avverano che ci hanno portato sull'orlo di una nuova Grande Depressione. Ora, il piano va reso accettabile anche per i cittadini europei.
I COSTI POTENZIALI DEL PIANO
Nelle prossime settimane capiremo se le drastiche misure decise dai governi riusciranno a ridurre lo spread tra Euribor e tasso di rifinanziamento della Bce. Se avranno successo, non ci sarà bisogno di mettere in atto i provvedimenti. Se non avranno successo, il debito pubblico dei paesi dell'eurozona è destinato a salire alle stelle. Se avranno un successo solo parziale nel rassicurare i mercati, avremo ingenti esborsi a favore del sistema bancario. La garanzia sul mercato interbancario è potenzialmente molto costosa: prima della crisi, il volume delle sole posizioni overnight in molti paesi dell'euro era dell'ordine dell'1-2 per cento del Pil. Ai piani di ricapitalizzazione delle banche, invece, è destinato finora circa il 20 per cento del Pil della zona euro, ma la quota è destinata a salire via via che prendono forma i piani nazionali e i paesi sono costretti ad aumentare il capitale delle banche per raggiungere lo stesso livello di quelle del Regno Unito, il core tier 1: è un peccato che su questo punto non ci sia stato un coordinamento tra i diversi paesi.
MISURE DIFFICILI DA ACCETTARE
Ma l'opinione pubblica dei paesi dell'Unione Europea è pronta ad accettare trasferimenti di risorse, potenzialmente enormi, dal contribuente al settore bancario? È vero che è soprattutto il debito lordo a crescere e che quando la crisi sarà passata, con la vendita delle attività, si potrebbe anche verificare un calo del debito netto. Ed è altrettanto vero che salvando il sistema bancario, in definitiva si salvano le nostre economie e milioni di posti di lavoro. Tuttavia, esiste il non trascurabile rischio che piani che impegnano notevoli quantità di risorse nel salvataggio delle banche incontrino una forte opposizione nei parlamenti nazionali. E, paradossalmente, gli oppositori del “socialismo bancario” si trovano per lo più nelle fila degli ex sostenitori della socializzazione dei mezzi di produzione.Finora, in Europa, la crisi ha contribuito a ridurre le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza. Ciò è dovuto alla relativamente bassa partecipazione delle famiglie ai mercati finanziari e alla relativamente bassa adesione agli schemi pensionistici. Basandoci su micro dati sulla ricchezza raccolti dal progetto Luxembourg Wealth Study, si può stimare che una caduta del 40 per cento dei prezzi dei corsi azionari, riduce in modo significativo la ricchezza di circa il 6 per cento delle famiglie italiane in confronto a quasi il 30 per cento delle famiglie negli Stati Uniti. Anche la perdita media di ricchezza per chi è colpito dalla caduta dei prezzi delle azioni è inferiore in Italia: all'incirca il 5 per cento contro il 10 per cento negli Stati Uniti. Senza dubbio, provvedimenti mirati ad affrontare il crollo della borsa saranno perciò percepiti come provvedimenti a favore dei decili più alti nella distribuzione della ricchezza: Wall Street contro Main Street, e questo ancor più in Europa che negli Stati Uniti.Ma queste misure sono difficili da accettare dall'opinione pubblica anche per un'altra ragione: il piano rinvia a un altro momento quei provvedimenti per “punire i banchieri” che invece erano stati molto pubblicizzati. Nel piano deciso a livello internazionale l'ordine delle priorità è chiaro: prima il salvataggio dei sistemi finanziari per ristabilire la fiducia dei mercati, poi gli interventi per evitare che tutto ciò accada di nuovo. Era la cosa giusta da fare: mischiare le due fasi avrebbe potuto rivelarsi controproducente perché la priorità di oggi è ancora quella di ancorare le aspettative a uno scenario che non produca effetti domino, come è successo invece in seguito al fallimento di Lehman Brothers. Tuttavia, dobbiamo chiederci se i cittadini europei sono pronti ad accettare piani di salvataggio delle banche che concedono denaro pubblico ai banchieri e allo stesso tempo rinviano le sanzioni verso chi, prima della crisi, guadagnava più di 50 milioni di dollari - il compenso di Richard Fuld nel 2007 - e verso banche che, sempre prima della crisi, realizzavano profitti che arrivavano in qualche caso, per esempio in quello di Unicredit e Banca Intesa, a quasi lo 0,5 per cento del Pil, con tassi di rendimento del 20%. I cittadini sono pronti ad accettare tutto questo dopo aver assistito per dieci anni a una enorme crescita delle disuguaglianze di reddito, guidata dall'1 per cento più ricco della popolazione e la cui quota sul reddito totale è più che raddoppiata in paesi come gli Stati Uniti?
TRE PROPOSTE
Nelle ultime settimane, gli economisti sono riusciti a convincere i governi a fare i conti con la crisi finanziaria. In tempi di politiche eccezionali, sono riusciti a farsi ascoltare, e molto seriamente, dai politici, costringendo molti di loro, inclusi George Bush e Angela Merkel, a imbarazzanti dietrofront. Ora, gli economisti dovrebbero essere altrettanto efficaci nell'affrontare i vincoli politici ai piani di salvataggio ed escogitare modi per far sì che anche i cittadini europei possano trarne benefici. Ecco tre proposte.Primo, esiste un modo alternativo per punire le banche e i banchieri e può essere messo in atto subito: aumentare la concorrenza nel sistema bancario. Dopo aver sofferto di una acuta crisi di liquidità, le banche accentueranno ancora di più la concorrenza per attrarre i risparmi delle famiglie. Rimuovere gli ostacoli alla competizione nel settore retail è allora importante per dar modo alla competizione di abbassare i margini di profitto e migliorare i servizi per i cittadini. E dovrebbe essere ammessa anche una maggiore contendibilità. L'uscita dalla crisi richiederà un ampio processo di ristrutturazione delle banche, ma le protezioni nazionali contro fusioni e acquisizioni potrebbero ostacolare seriamente il processo: dovrebbero quindi essere eliminate al più presto.Secondo, i governi europei non hanno fatto niente per aiutare le famiglie a basso reddito con un mutuo sulla casa. È vero che il problema non è così grave come negli Stati Uniti, ma la crescita dei tassi Euribor, ai quali sono spesso indicizzate le rate mensili dei mutui, fa aumentare significativamente il numero delle famiglie povere che hanno difficoltà a pagare il mutuo. Si dovrebbe pensare a programmi di aiuto temporaneo, fino a quando i tassi non torneranno a scendere. Dovrebbero essere programmi ben mirati per minimizzare i costi e i problemi di moral hazard legati a un provvedimento che si rivolge a una popolazione ampia, ma dovrebbero essere comunque messi in atto.Terzo, esiste lo spazio per riduzioni fiscali per chi percepisce bassi salari. Una misura che servirebbe a prendere due piccioni con una fava. Servirebbe infatti ad accrescere la progressività della tassazione nella percezione dei cittadini, riducendo l'opposizione all'ingiustizia del socialismo bancario. Servirebbe inoltre ad ancorare le aspettative a una caduta moderata della produzione: l'attuale mancanza di fiducia deriva anche dalla convinzione che la crisi si propagherà ora alle imprese e alle famiglie spingendoci verso la trappola della deflazione. Le deduzioni fiscali sui redditi bassi hanno il vantaggio di agire su entrambi i lati, della domanda e dell'offerta: incrementano la domanda perché sono rivolti alle famiglie con la più alta propensione al consumo e incrementano l'offerta perché inducono le persone a lavorare di più senza aumentare il costo del lavoro per le imprese. E poiché queste misure potrebbero ridurre l'economia sommersa, avrebbero effetti limitati sul bilancio dello Stato.

lunedì 13 ottobre 2008

A proposito di integralismo islamico

Il primo ministro australiano, John Howard, disse il mercoledì, ai musulmani che vogliano vivere sotto la Sharia islamica che vadano via dell'Australia; proprio nel momento in cui il governo si trova ad isolare possibili gruppi radicali che potrebbero in un futuro lanciare attacchi terroristici contro il paese di quell'isola-continente.

Ugualmente, Howard risvegliò la furia di alcuni musulmani australiani quando disse che ha dato tutto il suo appoggio alle agenzie di controspionaggio australiano affinché spiino nelle moschee che ci sono nella nazione.

'Quelli che devono adattarsi arrivando in un nuovo paese sono gli immigranti, non gli australiani', espresse con fermezza Howard. 'E se non gli piace che se ne vadano. Sono stufo che questa nazione si stia preoccupando sempre di non offendere altre culture o altri individui. Dall'attacco terroristico in Bali, abbiamo verificato un incremento di patriottismo tra gli australiani.'

La 'nostra cultura si è sviluppata su secoli di lotte, prove e vittorie di milioni di uomini e donne che vennero qui alla ricerca di libertà', ribadì Howard.

'Qui parliamo fondamentalmente inglese’, disse il primo ministro in un momento del suo energico discorso. ‘Non parliamo arabo, cinese, spagnolo, russo, giapponese né nessuna altra lingua. Pertanto, se gli immigranti vogliono trasformarsi in parte di questa società che imparino la nostra lingua'!

Howard continuò dicendo che la maggioranza degli australiani sono cristiani. 'Questo non è un'ala politica né un gioco politico. Si tratta di una realtà. Si tratta di uomini e donne di ascendenza cristiana che fondarono questa nazione basandosi su principi cristiani, ciò è ben documentato in tutti i nostri libri. Pertanto è completamente adeguato alle tradizioni dimostrare la nostra credenza evidenziandola sulle pareti delle nostre scuole. Se Cristo li offende, allora suggerisco loro che cerchino un'altra parte del mondo dove vivere, perché Dio e Gesù Cristo sono parte della nostra cultura.'

'Tollereremo le vostre credenze, ma dovete accettare le nostre per potere vivere in armonia e pace vicino a noi', notò Howard. 'Questo è il nostro paese, la nostra patria, e queste sono le nostre abitudini e stili di vita. Permetteremo a tutti che ne godiate, ma quando smettiate di lamentarvi, di piagnucolare e di protestare contro la nostra bandiera, la nostra lingua, il nostro compromesso nazionalista, le nostre credenze cristiane o il nostro modo di vita. E’ inaccettabile che approfittiate della grande opportunità di libertà che avete in Australia. Qui avete il diritto di andare e venire dove più vi convenga'!

'A chi non piaccia come viviamo noi australiani', proseguì Howard. 'lasciamo la libertà di andare via. Noi non li abbiamo obbligati a venire. Loro chiesero di emigrare qui, cosicché è ora che accettino il paese che li accolse.'