martedì 14 luglio 2009

Manager ..... donna? Realtà o fantasia?

Da una indagine Inpdai del 2007 i dirigenti italiani erano per il 93,5% maschi e per il 6,5% femmine.
Dei primi il 58% laureato e delle seconde il 100%. Il 70,5% al Nord, il 21,4% al Centro e l’8% al Sud.
Negli ultimi 30 anni il numero di dirigenti è aumentato di 2,5 volte al Centro-Nord e di 5 volte al Sud.
Il numero di donne è invece passato da quasi zero al 6,5% del totale.
Il numero totale di dirigenti “tagliati” negli ultimi 10 anni è stato di 20.000 unità, quasi tutti uomini.
La domanda occupazionale, da parte delle imprese, di professioni tecniche, intellettuali e scientifiche, non dirigenti, è stata per il 2008 del 20% al Centro-Nord e del 14% al Sud. La parte del leone l’hanno fatta gli operai specializzati ed i conduttori di impianti con oltre il 60%. Per lo stesso periodo quella rivolta a figure dirigenti è stata dello 0,3%.
Mala tempora currunt!
E’ evidente che l’impatto fortemente negativo, dal punto di vista occupazionale, riguarda quasi unicamente i manager uomini a seguito della loro preponderante presenza, ma alcune osservazioni forse si possono fare.
Una di queste riguarda la retribuzione, infatti essi sono mediamente pagati più o molto più delle donne e le imprese stanno cercando da qualche anno di tagliare con forza i costi fissi.
Da una serie di osservazioni però emerge che quando un gruppo di dirigenti viene sottoposto a ristrutturazione e si vanno a guardare i diversi criteri utili a razionalizzare i “tagli”, le donne o non vengono toccate o solo sfiorate dai provvedimenti. Ma come mai, se fino a ieri la donna, in quanto madre o potenzialmente tale, era vista come un “rischio difficile da calcolare” nell’economia della gestione? Oppure era, se brava, associabile alla figura preziosa della segretaria-assistente ma sempre assoggettata al “servizio” di un manager uomo? Impensabile vederla seduta a dirigere una funzione in una azienda meccanica o comunque industriale. Maschio il fondatore, maschia la progenie, maschi i manager, maschi i tecnici e così via.
E’ certamente vero che la gran parte delle laureate aveva ed ha scelto indirizzi umanistici e scientifici con orientamento a quelli amministrativi, avvicinandosi da non molti anni a quelli più “tecnici” specifici o gestionali; ma è certo che il pregiudizio “questi non sono lavori da donna” ha imperato da generazioni nell’epoca industriale e nel commercio.
E’ altrettanto vero che lo statuto dei lavoratori e la costituzione hanno progressivamente aperto verso l’uguaglianza tra i sessi, ma fondamentalmente a parole.
Le carriere e le responsabilità agli uomini, ciò semplicemente per definizione e tradizione.
In questo sono in testa i partiti politici, gli Enti pubblici, le grandi aziende industriali seguite dalle PMI e dal commercio.
E’ vero che un elevato numero di donne, appartenenti alle categorie impiegatizie e operaie, particolarmente in aziende pubbliche, ha affrontato i periodi di maternità dilatandone i tempi ai limiti, se non oltre, dei benefici contrattualmente previsti e generalmente per risolvere la meglio le problematiche famigliari o personali. Però è altrettanto vero che alcune di loro si sono distinte per la capacità di gestire il proprio status di donna, donna madre, moglie, lavoratrice.
In particolare, nelle aziende private, sono state le donne a dimostrare che con il crescere delle loro responsabilità aumentava l’abilità con cui gestivano tutti i loro impegni lavorativi e non.
Se da sempre la donna ha dovuto faticare il doppio per raggiungere gli stessi livelli dei colleghi uomini, oggi, nel Nord Italia, la battaglia resta dura ma comincia a diffondersi l’opinione che una donna nei posti di responsabilità sia più affidabile e continua del collega uomo.
Forse non si può parlare di uguaglianza perché la donna resta tale nella sua profonda diversità dal maschio, ma di modo diverso per l’uomo di vederla e valutarla. Cambio degli schemi mentali ed emersione di ciò che forse è così da anni se non da sempre. La categoria manageriale potrà trarre molti vantaggi da questa crescita qualitativa e quindi ….largo ai manager donna!

lunedì 6 luglio 2009

IL POSTO PUBBLICO? SI EREDITA

A parità di istruzione, genere, età, stato civile, area geografica e altri parametri, la probabilità di entrare nella pubblica amministrazione aumenta del 44 per cento per gli individui il cui padre lavora nel settore pubblico. Ma il nepotismo non è solo fonte di iniquità, ha anche costi rilevanti per le organizzazioni pubbliche, costrette a impiegare lavoratori meno competenti. E' essenziale un meccanismo che premi o penalizzi economicamente i responsabili delle selezioni sulla base della qualità delle scelte effettuate.
I posti di lavoro nel settore pubblico sono particolarmente ambiti in Italia sia per un significativo premio salariale che pagano rispetto ai lavori nel settore privato, a parità di caratteristiche individuali, sia per la sicurezza dell’occupazione e le migliori condizioni di lavoro che garantiscono.

DI PADRE IN FIGLIO
Sulla base di tali considerazioni, è ragionevole pensare che molti pubblici dipendenti provino a usare la loro posizione, le informazioni privilegiate di cui dispongono e il network di relazioni sociali formate sul posto di lavoro per favorire – al di là dei loro meriti, attraverso raccomandazioni o richieste di favori – l’accesso al settore pubblico dei propri figli.Suscitano periodicamente scalpore i casi di docenti universitari che favoriscono i propri figli nell’accesso alla carriera accademica, i politici che assicurano lauti incarichi ai familiari o le assunzioni clientelari alla Rai. (1) Ma probabilmente il fenomeno è più esteso di quanto si riesca a percepire e riguarda numerosi comparti della pubblica amministrazione.In un recente lavoro, utilizzando dati individuali tratti dall’Indagine sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane della Banca d’Italia dal 1998 al 2004, cerchiamo di stimare la probabilità di ottenere un posto di lavoro pubblico, tenendo conto di una serie di caratteristiche individuali e delle condizioni dei mercati del lavoro locali, allo scopo di verificare se i figli dei dipendenti pubblici godono di un vantaggio nell’ottenere un’occupazione pubblica rispetto agli individui il cui padre non è dipendente pubblico. (2)I risultati mostrano che la probabilità di entrare nella pubblica amministrazione aumenta di un considerevole 44 per cento per gli individui il cui padre lavora nel settore pubblico, a parità di istruzione, genere, età, stato civile, area geografica e così via. Nel campione considerato la probabilità di lavorare nel settore pubblico è di circa il 24 per cento. Se il padre è dipendente pubblico tale probabilità sale al 35 per cento, ceteris paribus. E aumenta ancora se anche la madre lavora nel settore pubblico, anche se l'effetto è meno forte.In generale, la probabilità di lavorare nel settore pubblico dipende fortemente dagli anni di istruzione, sia per il tipo di lavoro svolto, sia perché un alto livello di istruzione consente di primeggiare nei concorsi pubblici. Il legame positivo emerge in tutte le aree geografiche, anche se con intensità diversa: per ogni anno aggiuntivo di istruzione la probabilità di diventare dipendente pubblico aumenta di 2,7 punti percentuali al Nord, di 3,2 al Centro e di 4,4 al Sud.Il vantaggio goduto in qualità di figlio di dipendente pubblico corrisponde a circa tre anni di istruzione: così, per esempio, un diplomato il cui padre lavora nel settore pubblico ha le stesse chances di ottenere un posto pubblico di un giovane in possesso della laurea triennale, ma il cui padre lavora nel settore privato.
LA RESPONSABILITÀ DEI DIRIGENTI
Ovviamente, la maggiore probabilità di accesso goduta dai figli dei dipendenti pubblici potrebbe dipendere da preferenze o attitudini verso il tipo di lavoro comuni a padri e figli, dalla trasmissione di capitale umano di padre in figlio piuttosto che da pratiche nepotistiche e favoritismi. Una parte della correlazione tra tipo di professione dei padri e dei figli è sicuramente da imputare a questi fattori. Tuttavia, una serie di altri risultati empirici rafforzano l’ipotesi che una parte consistente della maggiore probabilità di ottenere un posto pubblico per i figli dei dipendenti pubblici sia legato al nepotismo.Innanzitutto, mentre l’influenza del padre dipendente pubblico risulta piccola per i soggetti che si diplomano o si laureano con i migliori voti, il vantaggio risulta molto elevato per gli individui che ottengono voti bassi, cosicché il figlio di un dipendente pubblico non ha conseguenze negative da esiti scolastici mediocri mentre gli altri subiscono un notevole decremento della probabilità di accesso alla pubblica amministrazione. La probabile spiegazione è che i genitori dei figli meno bravi si prodigano di più per favorire la loro assunzione nella Pa, dal momento che le loro opportunità alternative nel settore privato sarebbero relativamente meno buone.

In secondo luogo, la probabilità di accesso alla Pa varia poco a seconda del settore di lavoro dei genitori per i soggetti che lavorano in un posto diverso dal luogo di nascita; “l’effetto padre” è invece più forte per coloro che non si spostano. Tale evidenza indica presumibilmente che “raccomandazioni” e “favoritismi” hanno efficacia solo all’interno del network sociale di appartenenza. Ancora, “l’effetto padre” è molto più accentuato nelle regioni del Mezzogiorno, affette da un maggiore grado di “familismo amorale”.Infine, la probabilità di trasmissione del posto di lavoro da padre in figlio riscontrata nel settore pubblico è stata confrontata con la probabilità di trasmissione del posto di lavoro per gli imprenditori, liberi professionisti e altri lavoratori autonomi. Per tali categorie, è plausibile pensare che avvenga trasmissione di capitale fisico, capitale umano e “reputazione familiare” che favoriscono il passaggio di professione all’interno della famiglia. Nonostante ciò, la probabilità di trasmissione per i dipendenti pubblici risulta addirittura più elevata di imprenditori e lavoratori autonomi.Il nepotismo rappresenta un fallimento della meritocrazia: oltre a essere fonte di iniquità, produce rilevanti costi per le organizzazioni pubbliche, costrette a impiegare lavoratori meno competenti ma “connessi”, e disincentiva i migliori a investire risorse per l’accesso a tali occupazioni.Una delle principali cause di questo fenomeno va rintracciata negli schemi retributivi adottati nel pubblico impiego, in particolare nel fatto che generalmente i dirigenti o responsabili non sopportano economicamente le conseguenze delle scelte effettuate nelle selezioni pubbliche: se si assume il figlio incompetente del proprio collega si ottengono favori/tangenti/riconoscenza/lealtà da parte di quest’ultimo, ma praticamente nessuna penalizzazione in termini di minore remunerazione, nonostante l’organizzazione registri performance peggiori come conseguenza delle cattive selezioni. D’altra parte, la scarsa presenza di meccanismi retributivi incentivanti non penalizza nemmeno il “raccomandato” anche se svolgerà male il suo lavoro.La riforma della pubblica amministrazione verso una più diffusa adozione di remunerazioni legate alla performance potrebbe contribuire al miglioramento della selezione della forza lavoro, ma è essenziale un meccanismo che premi o penalizzi economicamente i responsabili delle selezioni in relazione alla qualità delle scelte effettuate.