Creare lavoro è l’urgenza del momento
Francesco Giubileo e Marco Leopardi
UN MATCHING SENZA DOMANDA DI LAVORO
In campagna elettorale tutti promettono nuove spese, non si
sa bene con quali risorse (visto che il gettito fiscale in percentuale del Pil
ha raggiunto il 45 per cento). Invece, bisogna rendersi conto che nel nostro
paese la spesa pubblica è il problema, non la soluzione. Si deve discutere solo
di composizione della spesa per renderla più efficiente e non dell’ammontare
che, semmai, è già troppo elevato. Per esempio, la composizione della spesa in
politiche attive in Italia è molto diversa rispetto a Francia e Germania: anche
noi, come avviene in quei due paesi. In Italia dovremmo fare più creazione
diretta di occupazione e meno formazione.
In un momento di recessione economica, sviluppare programmi
di mediazione nei confronti dei soggetti più svantaggiati non è sufficiente,
proprio per l’assenza di una adeguata domanda di lavoro. Per questo è
fondamentale investire in programmi di supporto o creazione diretta del lavoro.
Ed è meglio utilizzare temporaneamente strumenti che abbiamo già a disposizione
piuttosto che inventarsi la Banca del Sud o il nuovo Iri.
Il quarto pilastro della riforma del lavoro del governo
Monti, che è quello che riguarda le politiche attive, è ancora tutto da
scrivere. In particolare, bisognerà rivedere il funzionamento dei servizi
all’impiego per la ricollocazione dei disoccupati.
In questa fase di recessione economica, i soggetti che si
rivolgono ai Centri per l’impiego (Cpi). presentano caratteristiche
estremamente eterogenee. Accanto a coloro che sono in grado di trovare
“autonomamente” il lavoro e necessitano solo di intermediazione, è presente una
seconda tipologia, ed è il gruppo più consistente, alla quale serve una “traiettoria”
per tornare nel mercato del lavoro.
Se liberati dalle attività amministrative (come la
registrazione delle disponibilità al lavoro tramite web o call center), i
Centri per l’impiego potranno sviluppare servizi destinati a queste persone,
per indirizzarle verso quelle imprese che negli ultimi anni hanno effettuato
assunzioni significative. A questo si aggiunge la possibilità di delegare parte
della fase di collocamento all’attore privato, all’interno di un accordo di
partenariato dove sono indicati chiaramente incentivi e sanzioni per ridurne
l’opportunismo.
Tuttavia, questo percorso, che riassume un modello
“idealtipico” dei servizi pubblici per l’impiego, non è in grado di offrire una
risposta adeguata ai soggetti appartenenti alle fasce più deboli del mercato
del lavoro: disoccupati di lungo periodo oppure over50 con bassa
scolarizzazione proveniente da un settore economico in crisi. In molti casi, si
tratta di soggetti “parcheggiati” nella formazione professionale, per i quali
successivamente non si trova una domanda di lavoro interessata ad assumerli
anche in presenza di incentivi economici.
In altre parole, siamo in una fase in cui è presente un
eccesso di offerta di lavoro e pertanto gli investimenti nella fase d’incontro
offerta/domanda di lavoro rischiano seriamente di non produrre risultati,
soprattutto per i soggetti più “svantaggiati”.
COME FANNO GLI ALTRI?
Il confronto con Germania e Francia è utile perché mostra
come questi paesi affrontino la possibilità di collocare i soggetti “svantaggiati”
(anche prima della crisi), non solo investendo nello sviluppo del capitale
umano tramite la formazione professionale, dove i risultati in termini di esiti
occupazionali sono tutt’altro che incoraggianti, ma anche attraverso
investimenti in supporto o creazione diretta di occupazione.
La tabella sotto mostra come l’Italia spenda molto di più in
formazione o premi alle imprese e molto meno in incentivi
all’auto-imprenditorialità, supporto e creazione diretta di occupazione.
Proprio queste voci (ad esempio attraverso agevolazioni per gli asili nido,
sostegno diretto all’auto-imprenditorialità femminile, o trasformazione della
cura di familiari non autosufficienti in collaborazioni regolari) sono alla
base del successo francese nella collocazione delle donne nel mercato del
lavoro. In modo analogo, per quanto riguarda l’assistenza nella creazione di
ditte individuali o nel supporto alle aziende per nuova occupazione, i servizi
pubblici per l’impiego tedeschi sono imparagonabili in termini di competenza e
risorse rispetto a quelli italiani.
Fonte: Nostre elaborazioni
dati Oecd (www.stats.oecd.org) ed
Eurostat (ec.europa.eu/Eurostat).
In realtà, il discorso vale anche per altri contesti
europei: se non fosse per strumenti molto simili ai lavori socialmente utili, i
modelli di Flexicurity danese e svedese non sarebbero in grado di ricollocare
un numero consistente di disoccupati di lungo periodo.
L’intervento diretto dello Stato per la tutela dei soggetti
più “svantaggiati” è una caratteristica che è sempre stata presente nel modello
di "welfare to work" anglosassone, con la trasformazione di milioni di
disoccupati di lungo periodo in invalidi civili durante l’era Thatcher o
successivamente l’assunzione di milioni di persone nelle strutture para pubbliche
o private (finanziate da sostegni statali), nei settori della sanità o
istruzione, durante il primo governo Blair.
Nei programmi di Job creation, infatti, il problema non è
tanto l’utilizzo o meno degli strumenti di creazione diretta (ad esempio i
lavori socialmente utili), ma piuttosto come il loro numero e la loro durata
possa essere gestita in Italia. Questo è l’aspetto che bisogna migliorare.
COSA SI PROPONE?
Per coloro che, secondo criteri oggettivi, si trovano in
situazioni di grave necessità economica, si potrebbero affiancare ai programmi
di orientamento al lavoro anche opportunità di supporto o creazione diretta di
lavoro. La possibilità di trasformare l’assistenza di cura ai
non-autosufficienti in politica attiva del lavoro è certamente l’intervento più
interessante, soprattutto in prospettiva di reingresso nel mercato del lavoro;
in alternativa, si possono offrire collaborazioni occasionali per attività nel
territorio.
L’obiettivo non è certo quello di proporre strumenti
analoghi a sperimentazioni già realizzate senza successo nel nostro paese (come
i forestali); piuttosto proprio sulla scorta dei problemi emersi dalle
esperienze precedenti, si potrebbero realizzare temporaneamente nuove forme di
Job creation.
Il numero dei beneficiari potrebbe essere proporzionale a
quello dei disponibili al lavoro che hanno stipulato un patto di servizio per
la loro ricollocazione con i Centri per l’impiego provinciali.
Inoltre, per evitare di generare aspettative circa la
capacità di reinserimento lavorativo dei beneficiari, questi programmi vanno
giustificati sulla scorta di altre considerazioni: rappresentano un test di
disponibilità da parte di individui che vengono solitamente percepiti come poco
motivati nella ricerca di lavoro; se realizzati efficacemente possono favorire
l’inclusione sociale dei partecipanti.
Il sostegno va inteso come aiuto alla persona e rientrerebbe
nei vari servizi offerti dai Centri per l’impiego; e le risorse per finanziare
lo strumento vanno trovate nelle altre voci che riguardano le politiche attive
del lavoro, in primis formazione professionale e incentivi alle imprese.
A queste si possono aggiungere le ingenti somme non spese
del Fondo sociale europeo, per sperimentazioni nei programmi di supporto o
creazione diretta di lavoro (rispettando ovviamente i vincoli comunitari)
dedicati ai disoccupati di lungo periodo, che non sono beneficiari di nessuna
forma di sostegno al reddito.
Nessun commento:
Posta un commento