martedì 19 febbraio 2013

Creare lavoro è l’urgenza del momento

Creare lavoro è l’urgenza del momento
Francesco Giubileo e Marco Leopardi

UN MATCHING SENZA DOMANDA DI LAVORO

In campagna elettorale tutti promettono nuove spese, non si sa bene con quali risorse (visto che il gettito fiscale in percentuale del Pil ha raggiunto il 45 per cento). Invece, bisogna rendersi conto che nel nostro paese la spesa pubblica è il problema, non la soluzione. Si deve discutere solo di composizione della spesa per renderla più efficiente e non dell’ammontare che, semmai, è già troppo elevato. Per esempio, la composizione della spesa in politiche attive in Italia è molto diversa rispetto a Francia e Germania: anche noi, come avviene in quei due paesi. In Italia dovremmo fare più creazione diretta di occupazione e meno formazione.
In un momento di recessione economica, sviluppare programmi di mediazione nei confronti dei soggetti più svantaggiati non è sufficiente, proprio per l’assenza di una adeguata domanda di lavoro. Per questo è fondamentale investire in programmi di supporto o creazione diretta del lavoro. Ed è meglio utilizzare temporaneamente strumenti che abbiamo già a disposizione piuttosto che inventarsi la Banca del Sud o il nuovo Iri.



Il quarto pilastro della riforma del lavoro del governo Monti, che è quello che riguarda le politiche attive, è ancora tutto da scrivere. In particolare, bisognerà rivedere il funzionamento dei servizi all’impiego per la ricollocazione dei disoccupati.
In questa fase di recessione economica, i soggetti che si rivolgono ai Centri per l’impiego (Cpi). presentano caratteristiche estremamente eterogenee. Accanto a coloro che sono in grado di trovare “autonomamente” il lavoro e necessitano solo di intermediazione, è presente una seconda tipologia, ed è il gruppo più consistente, alla quale serve una “traiettoria” per tornare nel mercato del lavoro.
Se liberati dalle attività amministrative (come la registrazione delle disponibilità al lavoro tramite web o call center), i Centri per l’impiego potranno sviluppare servizi destinati a queste persone, per indirizzarle verso quelle imprese che negli ultimi anni hanno effettuato assunzioni significative. A questo si aggiunge la possibilità di delegare parte della fase di collocamento all’attore privato, all’interno di un accordo di partenariato dove sono indicati chiaramente incentivi e sanzioni per ridurne l’opportunismo.
Tuttavia, questo percorso, che riassume un modello “idealtipico” dei servizi pubblici per l’impiego, non è in grado di offrire una risposta adeguata ai soggetti appartenenti alle fasce più deboli del mercato del lavoro: disoccupati di lungo periodo oppure over50 con bassa scolarizzazione proveniente da un settore economico in crisi. In molti casi, si tratta di soggetti “parcheggiati” nella formazione professionale, per i quali successivamente non si trova una domanda di lavoro interessata ad assumerli anche in presenza di incentivi economici.
In altre parole, siamo in una fase in cui è presente un eccesso di offerta di lavoro e pertanto gli investimenti nella fase d’incontro offerta/domanda di lavoro rischiano seriamente di non produrre risultati, soprattutto per i soggetti più “svantaggiati”.
COME FANNO GLI ALTRI?

Il confronto con Germania e Francia è utile perché mostra come questi paesi affrontino la possibilità di collocare i soggetti “svantaggiati” (anche prima della crisi), non solo investendo nello sviluppo del capitale umano tramite la formazione professionale, dove i risultati in termini di esiti occupazionali sono tutt’altro che incoraggianti, ma anche attraverso investimenti in supporto o creazione diretta di occupazione.
La tabella sotto mostra come l’Italia spenda molto di più in formazione o premi alle imprese e molto meno in incentivi all’auto-imprenditorialità, supporto e creazione diretta di occupazione. Proprio queste voci (ad esempio attraverso agevolazioni per gli asili nido, sostegno diretto all’auto-imprenditorialità femminile, o trasformazione della cura di familiari non autosufficienti in collaborazioni regolari) sono alla base del successo francese nella collocazione delle donne nel mercato del lavoro. In modo analogo, per quanto riguarda l’assistenza nella creazione di ditte individuali o nel supporto alle aziende per nuova occupazione, i servizi pubblici per l’impiego tedeschi sono imparagonabili in termini di competenza e risorse rispetto a quelli italiani.


                                 Fonte: Nostre elaborazioni dati Oecd  (www.stats.oecd.org) ed Eurostat  (ec.europa.eu/Eurostat).

In realtà, il discorso vale anche per altri contesti europei: se non fosse per strumenti molto simili ai lavori socialmente utili, i modelli di Flexicurity danese e svedese non sarebbero in grado di ricollocare un numero consistente di disoccupati di lungo periodo.
L’intervento diretto dello Stato per la tutela dei soggetti più “svantaggiati” è una caratteristica che è sempre stata presente nel modello di "welfare to work" anglosassone, con la trasformazione di milioni di disoccupati di lungo periodo in invalidi civili durante l’era Thatcher o successivamente l’assunzione di milioni di persone nelle strutture para pubbliche o private (finanziate da sostegni statali), nei settori della sanità o istruzione, durante il primo governo Blair.
Nei programmi di Job creation, infatti, il problema non è tanto l’utilizzo o meno degli strumenti di creazione diretta (ad esempio i lavori socialmente utili), ma piuttosto come il loro numero e la loro durata possa essere gestita in Italia. Questo è l’aspetto che bisogna migliorare.

COSA SI PROPONE?

Per coloro che, secondo criteri oggettivi, si trovano in situazioni di grave necessità economica, si potrebbero affiancare ai programmi di orientamento al lavoro anche opportunità di supporto o creazione diretta di lavoro. La possibilità di trasformare l’assistenza di cura ai non-autosufficienti in politica attiva del lavoro è certamente l’intervento più interessante, soprattutto in prospettiva di reingresso nel mercato del lavoro; in alternativa, si possono offrire collaborazioni occasionali per attività nel territorio.
L’obiettivo non è certo quello di proporre strumenti analoghi a sperimentazioni già realizzate senza successo nel nostro paese (come i forestali); piuttosto proprio sulla scorta dei problemi emersi dalle esperienze precedenti, si potrebbero realizzare temporaneamente nuove forme di Job creation.
Il numero dei beneficiari potrebbe essere proporzionale a quello dei disponibili al lavoro che hanno stipulato un patto di servizio per la loro ricollocazione con i Centri per l’impiego provinciali.
Inoltre, per evitare di generare aspettative circa la capacità di reinserimento lavorativo dei beneficiari, questi programmi vanno giustificati sulla scorta di altre considerazioni: rappresentano un test di disponibilità da parte di individui che vengono solitamente percepiti come poco motivati nella ricerca di lavoro; se realizzati efficacemente possono favorire l’inclusione sociale dei partecipanti.
Il sostegno va inteso come aiuto alla persona e rientrerebbe nei vari servizi offerti dai Centri per l’impiego; e le risorse per finanziare lo strumento vanno trovate nelle altre voci che riguardano le politiche attive del lavoro, in primis formazione professionale e incentivi alle imprese.

A queste si possono aggiungere le ingenti somme non spese del Fondo sociale europeo, per sperimentazioni nei programmi di supporto o creazione diretta di lavoro (rispettando ovviamente i vincoli comunitari) dedicati ai disoccupati di lungo periodo, che non sono beneficiari di nessuna forma di sostegno al reddito.


(Articolo pubblicato sul sito: www.Lavoce.info).

Nessun commento: