domenica 15 gennaio 2012

Uscire dalla crisi: non solo liberalizzazioni ma anche Manager capaci di innovarsi e Sindacati illuminati

Dalle indagini svolte sui territori italiani, emerge una triplice debolezza delle classi dirigenti locali.
La prima è quella di una risposta alla crisi non sempre adeguata, spesso confusa e in ordine sparso.
La seconda è un’eccessiva auto referenzialità locale, nonché una riconosciuta difficoltà, più volte ricordata, di praticare la cooperazione tra segmenti diversi di classe dirigente per i comuni obiettivi del territorio.
La terza è che non si persegue con chiarezza e con l’impegno necessario l’obbligo primario della classe dirigente, quello di generare nuova classe dirigente, con il corollario della ben nota riluttanza a promuovere effettivamente i giovani talenti presenti sul territorio.

Ma oltre i limiti e le debolezze, i territori italiani conservano grandi patrimoni di risorse:
- Primo, una capacità di reazione alla crisi da parte del tessuto imprenditoriale, che ha dimostrato concretezza e tenacia, pur attraversando talvolta situazioni anche molto difficili non solo a causa della “nebbia cognitiva” di cui sopra, ma anche dell’incapacità sistemica di sviluppare sul territorio i modelli di coordinamento più adeguati.
- Secondo, il valore della produzione locale rispetto alla rendita, che ha costituito almeno fino al 2010 un elemento di tenuta della ricchezza delle famiglie e delle imprese, nonché dell’occupazione, in molti contesti locali.
- Terzo, la capacità di resistenza del tessuto sociale, con comunità abituate ad “assorbire” le difficoltà e con un livello di coesione che diventa a tutti gli effetti una risorsa competitiva del sistema.

Incrociando i dati delle regioni italiane su dotazione di infrastrutture ICT, lavoro specializzato e performance produttiva, emerge chiaramente come uno dei problemi principali a livello territoriale sia la carenza di lavoro specializzato. Una buona dotazione di capitale umano è un requisito-chiave per utilizzare le nuove tecnologie in modo adeguato, specie nelle regioni maggiormente dotate di infrastrutture informatiche, che sono poi quelle in cui si è registrato il maggior rallentamento nella crescita nel periodo 2005-2009.
Per ricominciare a crescere l’economia italiana ha bisogno di una classe dirigente decisa a compiere uno sforzo evolutivo, che si impegni cioè a sostenere le imprese ed i lavoratori per stare al passo con le altre economie avanzate anche attraverso efficaci programmi di supporto alla creazione di conoscenza, il capitale intangibile per eccellenza.
I dati recenti sul calo delle iscrizioni universitarie devono costituire un campanello d’allarme cui reagire subito, per invertire una tendenza che pregiudicherebbe il futuro del Paese.

La migliore qualità della finanza privata italiana – spesso evocata per esorcizzare l’elevato debito pubblico – e l’orientamento relativo della nostra economia verso il “reale”, non riescono a congiungersi in una dinamica virtuosa che rafforzi e stimoli le imprese, allargando i loro orizzonti. Gli estesi patrimoni privati sono un “mixed blessing”, una medaglia dalle due facce, da una parte fungono da ammortizzatore economico e sociale, ma dall’altra sono un incentivo a privilegiare la rendita rispetto al rischio dell’innovazione, la conservazione rispetto alla mobilità.
Di debito si può morire (Grecia e Irlanda docent), ma di patrimonio si può languire. Occorre mobilizzare quei patrimoni, con nuove forme di finanza che prevedano rischi e vantaggi esplicitamente partecipati e suddivisi tra imprese, banche, grandi investitori e famiglie. Occorre più finanza per lo sviluppo, senza le distorsione del sistema pubblico, con manager cosmopoliti, ma al tempo stesso esperti delle potenzialità produttive italiane.

Per quanto concerne lo sviluppo economico, da cui quello sociale non può prescindere, e pur con le debite differenze tra i territori, è ormai insostenibile la frattura tra un Paese dove si risponde solo delle procedure formali, sostanzialmente chiuso verso l’esterno se non per i richiami e gli obblighi che l’Unione Europa ci impone, solo marginalmente toccato dalla concorrenza; ed un Paese dove si risponde dei risultati, aperto verso l’estero e sottoposto alla pressione della concorrenza internazionale. Oltre alle richieste di sempre, più controlli efficaci e non formalistici, meno carte da presentare e tempi certi per le risposte, dalla giustizia civile, ai pagamenti, alla concessione di autorizzazioni e permessi, un contributo all’efficienza della Pubblica Amministrazione potrebbe aversi da una maggiore mobilità (anche limitata localmente, ma estesa a amministrazioni di natura diversa – centrale/locale). Ogni mutamento che favorisca la crescita dimensionale delle imprese, ogni decisione che consenta l’attrazione di investimenti dall’estero o limiti la fuga di nostre imprese e capitali va presa presto.

Fin qui il rapporto di AMC : “Generare Classe Dirigente 2011” che si era posta l’obiettivo di analizzare la situazione nell’ottica dei ruoli manageriali (Imprenditori e Dirigenti), ma lo sviluppo di una qualsiasi attività economica si basa anche in modo determinante su un’altra importante risorsa: il capitale umano.
Da anni ci riempiamo la bocca con la parola “formazione” ed è innegabile il suo ruolo che inizia con la scuola per finire nel processo della formazione continua aziendale passando attraverso l’apprendistato.
Si rileva nel rapporto come manchi personale specializzato. Ma come può sorgerne se non nell’oculato e preveggente investimento di alcune aziende? Infatti la scuola ha man mano perso la propria capacità di licenziare diplomati e laureati con un bagaglio formativo adeguato alle necessità del mercato prendendo una strada propria di presunte specializzazioni che hanno giustificato solo uno sviluppo crescente di cattedre.
Le conoscenze acquisite dagli studenti in ambito universitario sono generalmente proporzionali più all’impegno individuale degli stessi o di alcuni illuminati docenti piuttosto che al “Sistema universitario”.
Saltato il fosso che separa il mondo scolastico da quello aziendale, si aprono le porte dell’apprendistato o del lavoro a termine.
Peccato che il primo non sia altro che un business per le “mille società di formazione” che vivono sui finanziamenti pubblici erogando “il nulla” agli apprendisti. Corsi inutili dove persone di ogni provenienza aziendale diversa, quindi assolutamente eterogenea, perdono il loro tempo ad ascoltare lezioni generiche e spesso inutili per la loro formazione. Pagato questo assurdo prezzo, loro che non hanno imparato niente e le aziende dove non sono stati presenti, si riprende il loro quotidiano impegno nel lavoro senza averne tratto alcun valore aggiunto. Chi non ha avuto modo di seguire questa strada si trova a sottoscrivere un contratto a termine (da un mese a sei, fino a un anno) che, per la legge, non potrebbe essere rinnovato più di due volte nello stesso ruolo. Potrebbe, appunto, ma le deroghe sono infinite come gli escamotage. Infatti la sostanza non viene rispettata e nessuno la fa rispettare.
Qui entrano in gioco sia i vari Uffici della Direzione Provinciale del Lavoro (Ministero del Lavoro) sia i Sindacati, o meglio in genere non entrano. Sappiamo che da sempre gli Enti Pubblici non funzionano come dovrebbero e magari per mille motivi, ma vediamo che anche il Sindacato (meglio: i Sindacati nelle loro svariate vesti e sigle) è rimasto quello degli anni ‘60 in cui fu fondato. Allora raccoglieva tessere per avere la necessaria forza e controbattere un padronato che agiva liberamente senza controllo, adesso continua a ricercare tessere per mantenere la propria struttura con le stesse regole di un partito politico.
Ma il mondo è cambiato, il modo di lavorare pure, gli strumenti e le esigenze evoluti. Fino a venti anni fa forse pensavamo di esportare in tutto il mondo il nostro modello sociale e industriale, quello cioè elaborato dopo aver risentito dell’influsso degli USA. Oggi il dubbio su tutto ciò, dovrebbe pervadere le menti datoriali e sindacal,i perché alcuni miliardi di persone con approcci nuovi, con sistemi deregolamentati e comportamenti sociali dove il diritto acquisito è una parola sconosciuta, stanno emergendo a nostre spese.
Stiamo perdendo una battaglia? Forse no, ma certamente stiamo perdendo tempo per mancanza di realismo e di visione futura. Abbiamo sbagliato a perseguire gli obiettivi di benessere? Forse no, ma di fatto abbiamo vissuto al di sopra delle nostre reali possibilità. Qualcuno tempo addietro se ne era accorto ed aveva fatto alcune mosse che per noi sono fantascienza. Sindacati che in USA hanno investito nelle aziende per partecipare responsabilmente alla gestione, sindacati che in Germania hanno accettato la riduzione degli stipendi e degli orari di lavoro per aumentare la competitività dell’azienda e ridurre la disoccupazione.
Noi invece abbiamo proseguito imperterriti a difesa dell’acquisito, come se il guadagno venisse dal cielo, come la manna, e non fosse il risultato della produttività. Ora saremo costretti a cambiare tutti per salvare il salvabile e dare un futuro al nostro Paese ed ai nostri figli.

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