lunedì 10 ottobre 2011

Le classi dirigenti che non dirigono

Riprendo da “Varese News” la seguente lettera al Direttore:

“Egregio Direttore, le domande che il signor Gianni pone hanno una logica risposta. Da secoli quella citata dal lettore è il tipo di società che nasce dalle viscere delle popolazioni e solo la ragione, l'affinamento del pensiero, il progresso scientifico, la cultura, il sapere, l'evoluzione dei comportamenti hanno contrastato l'istinto primordiale del rifiuto e spesso della soppressione del diverso. Classi dirigenti e persone illuminate hanno guidato l'umanità nei secoli, hanno convogliato l'energia vitale verso le conquiste civili, la difesa dei diritti, la tutela dei deboli, il rispetto dell'altro. Oggi le classi dirigenti che si susseguono assolutamente invano non "dirigono" proprio niente, anzi, invece di porsi obiettivi e avere progetti lungimiranti seguono pedissequamente la pancia della gente nel tentativo di ingraziarsene i favori: e allora ecco che spuntano sindaci sceriffi, ronde di sorveglianza, leggi esemplari, manganelli e quant'altro Non è questione di Destra o Sinistra, è questione di ritorno alla barbarie, alla primitività ; perchè chi ha il compito di governare gli umori e amministrare la Legge è eticamente, intellettualmente e politicamente debole. Assistiamo così al paradosso che chi governa asseconda il popolo anziché elevarlo, istruirlo, anticipandone i rigurgiti ancestrali.

Non solo costoro non sono in grado di proteggerlo dai veri pericoli, ma li alimentano con scellerate sub-politiche che rendono l'individuo sempre più debole, più smarrito e di conseguenza meno tollerante. Occorrerebbe un miracolo perchè i politicanti oggi al potere si ravvedano; non sono in grado, non sono capaci e la loro incapacità, la loro pochezza diventa linfa per una società violenta e malata: quella in cui siamo immersi oggi e che invece di rassicurarci aumenta la paura, perpetua un circolo vizioso che soffoca ogni anelito di civiltà”

Evidentemente questo intervento si rivolge alla domanda di aver rilevato un disagio sociale ed una difficoltà ad accettare le migrazioni extracomunitarie e non solo. Facendo parte di quella schiera di persone disorientate dal caos politico ma ancor più dalla caduta dei valori e quindi dei paletti entro cui si muoveva la nostra democrazia, mi sento di condividere nella sostanza questa opinione.
Ma, prendendo spunto da queste osservazioni, la domanda che mi pongo non si rivolge ai dirigenti politici bensì a quelli che hanno responsabilità di indirizzo e gestione delle attività private, siano esse industriali o commerciali o bancario-assicurative.
I dirigenti in Italia sono relativamente pochi (125mila nel privato e 180mila nel pubblico) e soprattutto nel settore privato la scarsa managerialità delle aziende frena lo sviluppo. Se pensiamo che solo 32mila aziende hanno in Italia almeno un dirigente al loro interno (su 5.280.000) e che i 125mila dirigenti presenti sono pari a meno dell’1% dei lavoratori dipendenti privati, contro un rapporto di 3% di Francia e Germania, abbiamo uno dei principali motivi della nostra ormai decennale capacità di crescere.
Non v’è dubbio alcuno quindi che la managerialità nel nostro paese debba crescere, ma le organizzazioni di rappresentanza dei dirigenti privati, nate proprio nel primo dopo guerra, hanno tanto da dire e da fare anche in termini di professionalità, lavoro, sviluppo dell’economia, welfare ecc.
Si vuole rafforzare la presenza manageriale nella nostra economia non solo in termini numerici, ma anche e soprattutto in termini di ruolo a tutto tondo che una dirigenza dotata di adeguati poteri e deleghe, valutata sui risultati e non sulla fedeltà deve poter giocare appieno per dare il suo indispensabile contributo allo sviluppo.
Quello che sta accadendo nell’economia reale mondiale, con le aggregazioni societarie, le acquisizioni dei brand del made in Italy da parte di colossi stranieri, la dice lunga sul grado di maturità del capitalismo di casa nostra: aziende piccole, guidate da ‘padroncini’ che spesso temono la competizione internazionale e rifuggono dalla quotazione in borsa. La ‘spinta’ propulsiva dell’imprenditore così si ferma, impantanata dalla burocrazia, indebolita dalla mancanza di un ‘sistema Paese’, priva di strategia per i limiti del capitalismo familiare.
Anche le ‘eccellenze’ imprenditoriali – in mancanza di una visione manageriale fatta di aggregazioni ed alleanze – finiscono per essere facile preda delle multinazionali. E’ tempo di un cambio di marcia che deve venire dall’interno del tessuto economico, delle aziende e del capitale umano che le compongono.

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