martedì 3 gennaio 2012

"Licenziare gli statali? Dovremo porci il problema"

La riforma del mercato del lavoro "ha senso se serve a migliorare le prospettive di occupazione delle persone, la competitività delle imprese e la crescita dell'economia", ha detto il direttore generale di Confindustria a 'Omnibus', aggiungendo che sull'articolo 18 non c'è "nessuna guerra di religione"

La ricetta di Confindustria non cambia: con questa pressione fiscale da record, di altre tasse non se ne parla. Non restano che i tagli alla spesa pubblica. E tra questi, almeno secondo il direttore generale Giampaolo Galli, bisognerebbe anche ragionare sul licenziamento dei dipendenti statali, come in Grecia.
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Ospite de La 7, Galli, rispondendo a una domanda sulla possibilità di licenziare i dipendenti pubblici ha detto che "a un certo punto dovremmo porci anche questa prospettiva qui".

Basta guerre di religione sull'art.18
La riforma del mercato del lavoro "ha senso se serve a migliorare le prospettive di occupazione delle persone, la competitività delle imprese e la crescita dell'economia", ha detto il direttore generale di Confindustria a 'Omnibus', aggiungendo che sull'articolo 18 non c'è "nessuna guerra di religione".

Crisi profonda
Galli ha sottolineato che ci sono situazioni di "disagio sociali anche molti forti", ma che nascono non tanto dalla manovra del Governo Monti. Piuttosto dal fatto che questa è una "lunga crisi".

Sacrifici in tempi stretti
Ora l'Italia sta facendo un "aggiustamento" della finanza pubblica. "Purtroppo - ha detto il direttore generale di Confindustria - lo dobbiamo fare nel giro di pochi anni. Questo comporta dei sacrifici, dei costi".
Altrimenti si chiude
Secondo Galli "la manovra non è così pesante" e i consumatori tendono a "esagerare i numeri dei rincari, ma è indubbio che colgono un aspetto reale. La sommatoria delle manovre un costo per le persone ce l'hanno. Ma bisogna chiedersi quale era l'alternativa. Sarebbe stato un disastro dal punto di vista dei posti di lavoro e dei redditi, della possibilità di occupazione per giovani e non e la chiusura di imprese".

Fin qui la chiara presa di posizione di chi ha una visione soggettiva (di parte) della situazione europea, più che italiana, in un contesto economico dove le aziende produttrici costituiscono l’ossatura principale del nostro sistema economico. In effetti la riforma del mercato del lavoro si impone per riportare la nostra competitività a livelli tali da far crescere l’occupazione ed avviare a soluzione la ripresa dei consumi. Ovviamente essa non può prescindere o non dovrebbe, dal tipo di contratto di lavoro se pubblico o privato. Il criterio dell’efficienza è, o deve divenire, una regola su cui misurare le prestazioni per tutti coloro che lavorano, quindi industria, commercio, servizi e istituzioni pubbliche locali o centrali. Nella crescita e non nello spreco si fonda il nostro futuro e soprattutto quello dei nostri figli. La bandiera dell’art. 18, come istituto da difendere ad ogni costo, ha un grande significato politico che viene sventolato da un sindacato per attenuare ogni riforme strutturale nell’ottica del mantenimento dello status quo che fa comodo a moltissimi. Come negare che si stia meglio in una condizione di privilegio piuttosto che di incertezza! Come negare che abbiamo costruito un sistema di garanzie attorno ai lavoratori pubblici, al sistema sanitario ed agli enti inutili per favorire così una rete di collocazioni elettorali! Come negare la facilità di impiego o di indirizzo verso l’impiego “sicuro” facendo “l’occhietto” a questo o quel politico! Come negare di aver indirizzato i giovani verso l’impiego in Ferrovia, nelle Poste, nella Scuola, in Banca, in Comune, in Provincia, in Regione, in RAI e via dicendo, piuttosto che stimolarne la voglia di mettersi in gioco con l’impegno nello studio e nel cercare di affermarsi per i propri meriti! E’ stato così costruito un sistema che forse non potevamo permetterci e che se da un lato ha assicurato guadagni a moltissime persone, dall’altro ha mostrato il fianco alla legge non scritta dell’equo rapporto tra il guadagno e la produttività. Naturalmente ciò non si è rivelato oggi, nel bel mezzo della crisi, ma è stato tenuto “nascosto” preferendo aumentare il debito pubblico piuttosto che intervenire con un costo politico che nessuno ha voluto pagare facendo la politica dello struzzo.
A ribadire questi concetti c’è sempre stata la Confindustria ma anche lei ne è stata partecipe quando, negli anni della crescita, cedeva alle richieste sindacali monetizzando tutto, tagliando l’orario di lavoro, concedendo premi falsamente legati all’incremento della produttività e tollerando comportamenti antieconomici dei propri dipendenti. Non dimentichiamo anche: sfruttando finanziamenti pubblici incontrollati (come la Cassa del Mezzogiorno), sovvenzioni per mancati guadagni (vedi FIAT) con casse integrazioni speciali di anni per migliaia di lavoratori, emigrazioni dal sud Italia per avere lavoro a basso costo, ecc.
Ora la crisi impone di “fare un passo indietro” ma non intervenendo su uno dei fattori, ad esempio la riforma del lavoro, senza dare una nuova connotazione al sistema economico italiano. E’ del tutto evidente che in una azione complessiva (lavoro, tasse, sostegno al reddito, scuola, enti pubblici, Stato, politica) sia molto più facile scontentare tutti che favorirne qualcuno, ma proprio qui sta la chiave della soluzione. Occorre fare in modo che tutti siano almeno un po’ scontenti, perché questo vorrà dire che si sta effettivamente cambiando registro. Impresa facile? Sicuramente no, come nella pratica potremmo definirla impossibile. Infatti i poteri forti del sistema attuale (Confindustria, sindacati, banche, giudici, professionisti e partiti) faranno la massima resistenza a tutelare il loro interesse e con questo a prorogare nel tempo la crisi a danno del cittadino comune. Questo non può stupire nessun benpensante che pragmaticamente analizzi ciò che sia fattibile dall’utopia.
Ma senza fare drammi e ripercorrendo la storia, vediamo come il cittadino qualunque abbia sempre pagato il prezzo maggiore in rapporto ai benefici o disponibilità economiche. Nessuno ha mai trovato l’equilibrio ottimale se non per brevissimi periodi. A questo aggiungerei la nostra indole di italiani sempre pronti al compromesso ed a considerare le nostre scelte individuali come giustificazione al mancato rispetto delle regole comuni. Siamo fatti così, con il cuore in una mano ed il portafoglio nell’altra!



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