mercoledì 31 marzo 2010

10 anni di lavoro flessibile: luci ed ombre

Pochi fenomeni sono riusciti a stravolgere la coscienza collettiva degli italiani come ha fatto la flessibilizzazione del mercato del lavoro negli ultimi anni. Dopo questi dieci anni la sensazione è che la flessibilità sia andata ben oltre i suoi numeri, nel senso che ha prodotto più mutamenti psichici che non strutturali. Dal 1998, entrata a regime della flessibilità, la quota del lavoro a termine, che rappresenta lo zoccolo duro della flessibilità italiana, è passato dal 8,2% al 9,8%. Su 2.631.000 nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo decennio, la maggioranza pari a 1.990.000 sono stati a tempo indeterminato, mentre il lavoro temporaneo pur crescendo del 33,7% contro il 15,4% del lavoro a tempo indeterminato, ha contribuito con 572.000 nuovi occupati. Anche sommando i numeri del lavoro atipico per antonomasia, il co.co.co., che secondo l’ISTAT rappresenta il 2,1% della forma lavoro occupata, sommato il lavoro a termine porterebbe l’incidenza della flessibilità sul totale a 11,9%.

Inizialmente la flessibilità è stata un volano che ha permesso l’esplosione, a partire dal 1996, dei co.co.co., dei contratti temporanei e del lavoro interinale che hanno favorito l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne e dei giovani in genere. Tra il 1998 e il 2007 a fronte di un incremento dell’occupazione femminile del 20,4%, quella delle donne con contratto a termine è aumentata del 47,2% portando l’incidenza del lavoro flessibile sull’occupazione femminile al 15,7% contro l’analogo dato maschile fermo al 9,4%.
La struttura occupazionale è rimasta ancorata allo zoccolo duro dei lavori standard senza riuscire ad evolversi verso un modello che favorisca una sofisticata cultura del rapporto di lavoro, anche tramite l’elasticità degli orari, il part-time e aiuti quella mobilità che l’avrebbe resa sicuramente più accettabile.
E’ emblematico come il mercato del lavoro sia rimasto impermeabile a processi di vera mobilità: tra gli occupati con contratti a tempo determinato o con co.co.co. solo il 19,9% riesce a passare a forme di lavoro stabile, mentre il 78% resta nella condizione flessibile.
Indicativo è anche il ricorso al lavoro part-time che, nonostante la crescita dell’occupazione femminile, è rimasto stabile: dal 12,4% del 1998 al 13,6% del 2007.
Infine la flessibilità, secondo un’indagine CENSIS del 2007, è servita alle aziende per ridurre i costi e per affrontare l’esigenza di picchi produttivi. Questo spiega perché il 48% delle aziende utilizzi lavoratori cui non può offrire un futuro né stabile né flessibile, mentre il 24% non sa se potrà continuare a lavorare o meno. Dal profilo socio-anagrafico dei lavoratori atipici emerge che il 51,5% è costituito da donne di giovane età. Si consideri che il 57% dei precari ha meno di 35 anni ed il 23,7% ha un’età compresa fra 35 e 70 anni, concentrati soprattutto nel terziario per un 67,9% del totale occupazione atipica, nel campo sanitario, nei servizi sociali e formativi dove si concentra da solo il 18,9%.
Inoltre a metà degli anni’90 il nostro Paese è stato il primo al mondo in cui la quota di “anziani” ha superato quella dei giovani fino a 15 anni: un record negativo su cui non si riflette ancora abbastanza.
Le conseguenze sono che ai lavoratori anziani arrivano sollecitazioni contraddittorie: da un alto sono richieste di posticipare il pensionamento per il contenimento dei costi previdenziali e dall’altro sono accusati di non lasciare spazio ai giovani per favorire il ricambio generazionale.
Per questi motivi la flessibilità ha finito per diventare, non solo l’icona di un malessere sociale profondo che trova le sue ansie e inquietudini di una collettività che cambia rapidamente e vede crescere i margini d’insicurezza e rischio, ma anche il capro espiatorio dei ruoli del mercato del lavoro incapace di coinvolgere la qualità dell’offerta con le aspettative della domanda.
I cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro non richiedono il “posto fisso” con tutti gli oneri che ne derivano, ma politiche capaci di coniugare protezione sociale, rigore di bilancio, sviluppo occupazionale.
Il Paese è già troppo bloccato ed ingessato: c’è bisogno di merito, di mobilità sociale, poiché i giovani, che sono la risorsa per il futuro, sono molto penalizzati e un ritorno al “posto fisso” significherebbe non avere la precarietà diffusa bensì la disoccupazione.
Per avere sviluppo occupazionale credo che sia necessario, soprattutto, creare le condizioni affinché le imprese possano produrre ed espandersi. Ma allora i giovani devono essere messi in grado di offrire al mercato una preparazione scolastica di eccellenza oltre all’acquisizione, attraverso il lavoro, delle competenze professionali che saranno richieste. Essi dovranno dimostrare alle aziende una concreta disponibilità all’assunzione di responsabilità per essere tangibilmente una “risorsa” indispensabile alla crescita di impresa. Questa “risorsa” sarà sicuramente tenuta stretta, valorizzata attraverso al formazione e gratificata con un riconoscimento del merito sia sul piano economico sia quello professionale.
Il “merito” è un argomento che è riemerso come un fiume in piena dopo essere rimasto per decenni sepolto sotto le scorie di un pensiero ispirato a una concezione radicale del principio di uguaglianza che non accettava qualsiasi criterio di differenziazione. Il nostro Paese e non solo lui, ha pagato duramente quest’utopia che umiliava tutte quelle persone che prestavano la loro attività con il massimo impegno personale, serietà professionale e senso di responsabilità. Dall’aumento retributivo uguale per tutti al posto fisso il passo è breve ed ha creato facili illusioni che hanno penalizzato la crescita del Paese, anzi, ne hanno favorito la stagnazione economica, come dimostrano i dati OCSE

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