lunedì 22 giugno 2009

"La riforma degli assetti contrattuali dal '93 al 2009"

In
FEDERMANAGER ALESSANDRIA
Meet-up del 27/05/2009
"La riforma degli assetti contrattuali dal '93 al 2009"
(sono le nuove esigenze del mondo del lavoro
che hanno aiutato le modifiche dei contratti o viceversa?)
Relatori:
Giuseppe Gherzi – Direttore dell’Unione Industriale di Torino,
Michele Pesce – Vicedirettore di Confindustria Alessandria,
prof. avv. Toti Musumeci esperto di diritto del lavoro
dr. Gianluca Goretta consulente del lavoro
moderatore Michele Bramardi già Direttore di Confindustria Alessandria.

Sintesi degli interventi
Michele Bramardi introduce il tema del dibattito delineando il quadro di fondo, da cui emerge il bisogno di riforma
degli assetti contrattuali.
Giuseppe Gherzi entra nel merito delle dinamiche negoziali e valuta le conseguenze del rifiuto della CGIL a
sottoscrivere il recente accordo quadro, tracciando alcuni possibili scenari futuri.
Michele Pesce getta uno sguardo sulla realtà locale della contrattazione di secondo livello e sulle prospettive del
premio di risultato.
Toti Musumeci espone le conseguenze legali di un accordo "zoppo" delineando nel contempo alcune prerogative
sindacali.
Gianluca Gorretta si sofferma sui contenuti del recente accordo e ne approfondisce alcuni aspettiserisci qui la prima parte del post.


Michele Bramardi
Dall’accordo interconfederale del 1993 a quello del 2009 sono passati più di quindici anni, un periodo di grandi
cambiamenti in ogni campo ed in ogni settore, e il mondo del lavoro che non costituisce certo una eccezione.
Pensiamo ai profondi mutamenti che hanno modificato i modelli organizzativi, le innovazioni dei sistemi di
produzione, la globalizzazione dei mercati, le tipologie di lavoro, le
forme retributive con aspetti incentivanti e tanto altro ancora.
C’è però un aspetto che avvicina il 1993 al 2009: anche allora
stavamo attraversando un periodo di grave crisi, forse non così profonda come quella di oggi ma comunque
pesante, ed anche allora - come oggi - si diceva che Imprese e Sindacati dovevano fare la loro parte per
contribuire a dare una sterzata positiva ad una situazione che altrimenti sarebbe stata devastata da un
progressivo peggioramento. E si arrivò all’accordo interconfederale del 23 luglio 1993.
Venendo ai tempi nostri, ci sono voluti quasi quattro anni di dibattito intorno al Sindacato e, finalmente, nel
giugno 2008, le organizzazioni sindacali sono pervenute ad un documento unitario condiviso che ha dato di
fatto l’avvio ad un approfondito confronto.
Analogie tra il 1993 e il 2009
Anche da parte imprenditoriale si raggiunse una posizione comune e qui l’accordo fu ovviamente più facile.
Quello che però rappresenta una svolta molto significativa è che anche il Governo - nella sua qualità di datore
di lavoro pubblico – ha formalizzato la propria adesione ai principi di riforma proposti, permettendo così di
disporre di un modello comune nel settore pubblico ed in quello privato.
Se un nuovo protagonista si è aggiunto: il Governo –
un altro attore purtroppo si è autoescluso, non
firmando l’intesa: la CGIL.
Il suo Segretario generale ha giudicato l’accordo un errore, in quanto dividerebbe lavoratori e sindacati,
ridurrebbe il potere d’acquisto, metterebbe i lavoratori in una situazione di debolezza, non avrebbe avuto
l’approvazione vincolante tramite referendum.
Le conseguenze – a mio giudizio – potrebbero essere comunque ed in ogni caso pesanti: la contrattazione,
nazionale e territoriale, potrebbe diventare difficilmente governabile mettendo in discussione il nuovo sistema,
oppure la CGIL potrebbe incassare una dura sconfitta, rassegnandosi così ad una marginalità non consona al
più rappresentativo Sindacato italiano.
Vedremo cosa succederà nel prossimo futuro e sarà interessante, a questo proposito, conoscere il pensiero dei
relatori di questa serata, sotto diversi profili, sia sindacale che legale.
Ritornando ai contenuti dell’accordo, sicuramente significativo è che si sottolinei – come principio iniziale e
prioritario – l’"obiettivo dello sviluppo economico e della crescita occupazionale fondata sull’aumento della
produttività, l’efficiente dinamica retributiva ed il miglioramento di prodotti e servizi resi dalla pubblica
amministrazione".
Come è anche importante sottolineare – e lo ha fatto la Presidente di Confindustria – che è "una priorità per
tutti avere un sistema di relazioni industriali che sostenga il reddito dei lavoratori, aumenti la produttività, dia
regole certe ed affermi una cultura della condivisione superando la logica del conflitto".
Per quanto già previsto nell’accordo interconfederale del ’93, penso sia da
apprezzare ulteriormente lo spostamento della centralità contrattuale dal livello
nazionale a quello decentrato, locale, territoriale, aziendale ove le Parti siano più portate a condividere, sia
quando le cose vanno bene, sia quando volgono al peggio, obiettivi e risultati.
Questa impostazione, collegata in particolare alla contrattazione economico/retributiva condizionata al
raggiungimento di obiettivi aziendali, peraltro accompagnata da interessanti sgravi fiscali, potrebbe avere
benefici effetti anche nell’avvicinare ulteriormente la produttività di aree nazionali in materia carenti a quelle
più virtuose ed in ogni caso darebbe maggior equità retributiva tra aree, territori, città ove obiettivamente il
costo della vita è significativamente sperequato.
Si parla tanto di federalismo fiscale: non sarebbe male – a mio giudizio – parlare anche di federalismo
retributivo, soprattutto se il termine di "gabbie salariali" è ormai considerato sinonimo di un
veterosindacalismo superato e sul quale non è più il caso di tornare.
L’accordo quadro – come d’altra parte sempre succede – ha sollevato da
parte di commentatori specializzati svariate domande e quesiti.
Più specificatamente, il possibile conto per i contribuenti se è vero che gli incentivi fiscali previsti dall’accordo
sulla contrattazione di secondo livello potrebbero portare un beneficio fiscale per dipendente di circa 250 euro
che moltiplicati per il numero di lavoratori dipendenti implica una riduzione delle entrate di quasi 4 miliardi di
euro.
Un secondo quesito riguarda la copertura dall’inflazione: maggiore o minore rispetto al sistema precedente?
Ed infine se, attraverso l’applicazione del nuovo modello, la contrattazione di secondo livello troverà un nuovo
e vero impulso.
Sono certo che, grazie alla professionalità ed all’esperienza dei nostri illustri relatori, avremo adeguate risposte
a questi interrogativi e a quegli altri che emergeranno nel corso della serata.
Giuseppe Gherzi
E’ suggestivo l’avvicinamento del 1993 al 2009. Il 23 luglio ’93 venne firmato il protocollo tra i sindacati
Cgil, Cisl e Uil, la Confindustria e il Governo Ciampi sulla politica
dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle
politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo. La
concertazione durò un anno e mezzo, a partire dal 1 giugno 1992 e l'intesa del '93 contemplava un nuovo tipo
di contrattazione, con due livelli diversi per tempi e contenuti (contratto nazionale e contratto decentrato);
incrementi salariali legati, per il secondo livello, alla produttività; nuove forme di flessibilità e nuove regole per
l'elezione dei rappresentanti dei lavoratori nelle aziende. Prima della firma i sindacati resero noti i risultati delle
consultazioni: votarono oltre un milione e trecentomila lavoratori e i sì superarono i due terzi e gli astenuti
furono il 6%.
Ora c’è il Governo, come datore di lavoro,
ma si defila la CGIL
I principi dell’accordo
Qualche interrogativo…
L’accordo del 1993: una buona
"medicina" per il Paese
Il paese si risollevò e la congiuntura internazionale volse al bello, almeno per un certo periodo perché i
problemi di fondo non tardarono a riaffiorare.
Nel luglio del 2004 assistiamo al tentativo confindustriale, con Montezemolo presidente, di riformare gli assetti
contrattuali. Il risultato è lo "strappo" della CGIL: il segretario Epifani abbandona il tavolo delle trattative!
Non voglio entrare in dettagli tecnici in questa mia breve relazione, ma piuttosto cercare di capire quello che
succede e tracciare alcuni scenari sul futuro.
Sicuramente l’irruzione della crisi che ora ci attanaglia rende più urgente la
ricerca di soluzioni di maggior efficacia nelle relazioni industriali. E’ per questo
che il filo delle trattative è stato ripreso e si sono potuti vedere tentativi di accelerare i lavori. Non tutti però
sentono allo stesso modo questa urgenza. Anche in ambito confindustriale non tutti sono convinti dell’esigenza
di cambiamento degli assetti contrattuali.
L’accordo del 1993 è stato un passo avanti ma ha creato un sistema in cui, fatto 100 il livello medio
retributivo, 90 – 95 era la quota garantita dal contratto nazionale, mentre solo il 5 – 10 era lasciato a variazioni
di tipo aziendale o legate a differenze nord-sud. Con l’inflazione in calo degli anni scorsi, tutte le risorse sono
finite nel contratto e quasi nulla è rimasto per iniziative di recupero della produttività o di carattere
meritocratico. Anche l’elevata frequenza di rinnovo dei contratti (tra nazionali e aziendali si tratta ogni due
anni) portano ad una situazione di cicli negoziali continui. Al di là di ogni altra considerazione, è evidente che
ogni volta che ci si siede ad un tavolo, la parte datoriale deve necessariamente concedere qualcosa…
La domanda di fondo è la seguente: è possibile, al momento attuale, incidere seriamente sugli assetti
contrattuali oppure no? In Confindustria convivono diverse correnti di pensiero. Alcuni non sono comunque
favorevoli ai due livelli di contrattazione mentre altri li vedono positivamente purché abbiano diverse finalità e
diverso "peso": quello nazionale dovrebbe diventare più leggero economicamente mentre quello aziendale
dovrebbe avere la forza che si guadagna grazie al recupero di produttività. Questa seconda corrente è quella che
è emersa nell’impostazione del nuovo accordo di riforma.
Però, per fare un accordo occorre esser (almeno) in due. E forse i tempi non sono ancora maturi per un serio
mutamento delle relazioni industriali. Come ho già detto, all’interno di Confindustria c’è molta disparità di
pensiero e le linee-guida dei rinnovi contrattuali risentono di forti elementi di mediazione.
La vera novità è l’irruzione della crisi nel più o meno sonnolento panorama delle relazioni industriali.
L’accordo quadro che si è stilato è soprattutto politico, sono cioè gli interessi di
natura politica che prevalgono sui contenuti. Solo il tempo sarà giudice della sua
validità. E’ superfluo dire che l’irrigidimento della CGIL è anch’esso di natura politica e la scelta di non
firmare pare rientrare semplicemente nella linea: "non si fanno accordi con questo Governo". La Confindustria
si è trovata, a questo punto, ad un bivio: se la CGIL non è disponibile si ferma tutto e si attende, oppure si va
avanti lo stesso con chi ci sta? E’ prevalsa la volontà di continuare di fronte all’organizzazione sindacale (più
rappresentativa) che pone veti, al di là dei contenuti. Forse la CGIL non si aspettava questa reazione. Le
relazioni industriali cambiano di fatto, vedremo in seguito se ci saranno nuovi equilibri.
L’accordo quadro prevede per i contratti nazionali un indicatore, definito da soggetti terzi, che valuti il costo
della vita da recuperare, depurandolo dai fattori energetici. Questo punto è contestato dalla CGIL.
C’è poi un altro elemento che viene a cambiare: il "valore punto", da inserire come base unitaria nei calcoli
retributivi: a differenza del passato quando cresceva con il valore effettivo, dovrà essere prossimo al valore del
minimo contrattuale (in pratica scende di 2 – 3 €, a vantaggio dell’impresa).
A vantaggio dei lavoratori è previsto un elemento importante: tutti i dipendenti, anche coloro che non hanno
contrattazione, devono comunque ricevere, almeno ogni quattro anni, un adeguamento salariale. Questo
nell’ottica di proteggere maggiormente i veri soggetti deboli.
Si vorrebbe poi accompagnare l’accordo alla certezza delle regole, spesso rara nel nostro paese. Chi viola
l’accordo sottoscritto dovrà pagarne le conseguenze. Principio sacrosanto, tanto facile a dirsi quanto difficile da
far rispettare.
Che cosa può succedere, con un accordo non firmato da tutti?
Non sappiamo che cosa succederà anche perché spesso i grandi cambiamenti sono come i terremoti, si
preparano ma noi non ce ne accorgiamo fino al momento della grande scossa tellurica… forse anche il
sindacato tradizionale ha fatto il suo tempo e in questo senso si può forse leggere anche la recente aggressione
del leader sindacale FIOM a Torino: una lite tra sessantenni, che non interessa molto alle nuove generazioni…
Tornando alla domanda su ciò che potrà succedere, sappiamo che CISL e UIL, forti a livello nazionale, non
hanno la stessa capacità di aggregazione sul territorio e difficilmente riusciranno a sostenere i rilanci della
CGIL, che si sentirà libera di alzare a dismisura l’asticella delle rivendicazioni.
I dubbi sulla capacità di tenuta di CISL e UIL sono, a mio modo di vedere, molto verosimili.
Le prime risposte si avranno già nelle prossime settimane e per fine anno il quadro della percorribilità
dell’accordo sarà chiaro.
Irrompe la crisi…
Un accordo politico
Che cosa succederà?
Possiamo tracciare due scenari:
- nel primo, ottimista, CISL e UIL rispetteranno le regole e gli impegni
sottoscritti con l’accordo: anche Confindustria farà altrettanto;
- nel secondo scenario (pessimista) CISL e UIL non riusciranno a tenere gli impegni presi, in tal caso
neppure Confindustria potrà farlo. Possiamo dire che, in un certo senso, "salterà il banco", cioè i contratti
non si faranno e si dovrà rinegoziare il tutto su altre basi.
Ci saranno sicuramente tensioni, qualora questo secondo scenario diventi realtà, così come la gravità e gli
sbocchi della crisi in corso potranno condizionare il tutto…
Due cose sono certe: le aziende non amano la litigiosità e, se soldi non ce ne sono, non se ne possono dare…
Un cenno sul Contratto Nazionale Dirigenti: il suo schema, che prevede una maggior trattazione dell’aspetto
salariale a livello aziendale mentre le tutele sono demandate a quello nazionale, dà un segnale innovativo e
dovrebbe indicare una direzione verso cui dirigerci.
Michele Pesce
Il sottotitolo dell’incontro odierno si chiede se sono state le nuove esigenze del mondo del lavoro ad aiutare le
modifiche dei contratti o viceversa: è vera la prima parte perché il mondo del lavoro ha subito profondi
cambiamenti, tanto da far sembrare preistoria il tempo della "richiesta numerica e del "passaggio diretto" che
non è poi così lontano e molti di noi ricordano bene.
Forse si può affermare che la legislazione, nel
nostro paese, è progredita più rapidamente delle
relazioni industriali. Spesso poi il rinvio dalle disposizioni legislative ai contratti collettivi non è uniforme:
nascono pregiudiziali ed interpretazioni diverse nelle letture dei contratti. Un esempio emblematico di questo
stato di cose – vissuto in prima persona - lo troviamo in una norma del contratto degli orafi che, da sola, blocca
tutto il resto…
Le organizzazioni sindacali hanno la facoltà di porre il veto: su undici contratti nazionali che ho vissuto nella
mia attività all’Unione Industriale, per due volte la FIOM ha rifiutato di firmare. Ora però la situazione è
particolarmente critica e l’ampiezza della crisi può costituire un freno a questo stato di cose. Esiste una sorta di
regola nel rinnovo dei contratti: se l’economia "tira", tutto procede più rapidamente, altrimenti si generano
attese, a volte anche per la promessa di aiuti statali, tipo "rottamazione".
Uno sguardo alla situazione dell’industria in provincia: le aziende sono 470, con dimensioni variabili ma in
genere medio-piccole; c’è diversificazione nei settori produttivi ma molti comparti tradizionali (tipo il tessile)
sono scomparsi ed altri (come il calzaturiero) ormai ridotti all’unità.
Quanto è utilizzato il premio di risultato nelle aziende della Provincia? L’ordine di grandezza dei premi è di
circa 700.000 € ed i criteri maggiormente utilizzati sono costituiti dal binomio produttività-qualità, a volte
entra in gioco anche il MOL (margine operativo lordo) ma c’è da tener conto che i dati di bilancio sono
utilizzati raramente perché escluderebbero premi se il bilancio è in rosso, con sospetti di manipolazione…
In realtà la trattazione di secondo livello non è ancora percepita come strumento o leva di miglioramento (sia
per il livello retributivo che per i risultati d’impresa): spesso si cercano e si trovano astuzie per dare comunque
qualcosa. Non c’è chiara comprensione dello strumento, né da parte
datoriale né da quella dei lavoratori.
I premi di risultato sono spesso poco efficaci e mal sopportati perché, come
ho già detto, manca la necessaria cultura da entrambe le parti. Le cose peggiorano poi quando i premi sono
realizzati attraverso formule complicate. Un po’ meglio vanno le cose nei settori in cui la componente salariale
ha minor importanza, rispetto ai costi di produzione.
Nell’insieme, in Confindustria Alessandria sono depositati circa 30 accordi di premio di risultato all’anno. Ma
ultimamente la tendenza è su valori assai più bassi, mentre aumentano gli incontri per la richiesta di
ammortizzatori sociali.
Probabilmente le cose non sono destinate a cambiare, almeno in tempi brevi.
Forse la contrattazione nazionale potrà migliorare, grazie a meccanismi diversi ed a benefici fiscali, purché
siano certi, e non solo sulla carta.
Toti Musumeci
Veniamo subito alla domanda: quali conseguenze legali
nell’applicazione dell’accordo quadro se la CGIL non lo ha
firmato? La domanda è insieme tecnica e giuridica.
Riprendendo l’immagine della "lite tra sessantenni", il vero problema non è la lite, ma la perdita di
rappresentatività dei due soggetti che litigano. Quanto i sindacati sono rappresentativi? Questa domanda
Due scenari per il futuro
Le relazioni industriali si muovono lentamente
Il premio di risultato:
poco noto e poco amato
Quali conseguenze legali se un
sindacato non firma un accordo?
impone una riflessione necessaria per chi ambisce a rappresentare altri soggetti. La rappresentanza si fonda su
un mandato, una formula scritta ma, in pratica, si rappresenta veramente? Quando la risposta a questa domanda
lascia forti dubbi si può cedere alla tentazione di ricorrere ad espedienti giuridici…
Vediamo più da vicino che cos’è un’organizzazione sindacale. Ce lo dice l’art. 39 della Costituzione:
l’organizzazione sindacale è libera, se si registra ha determinati poteri, tra cui quello contrattuale (un potere
enorme, che segue le precedenti norme corporative ed ha validità erga omnes). Ma già l’art. 18 consente la
libertà di associazione, che vale anche per i partiti politici (art. 49), in effetti l’art. 39 ci dice qualcosa di più: il
sindacato deve avere un ordinamento interno a base democratica. Le precedenti norme erano di tipo
corporativo ed avevano, come detto, validità erga omnes mentre il contratto collettivo nazionale che le ha
soppiantate è di natura privatistica ed in particolare è regolato dalla volontà delle parti. Le organizzazioni
sindacali ricevono mandato dagli iscritti che possono avvalersi dei benefici dei contratti stipulati che sono
dunque contratti di diritto comune soggetti alla disciplina dettata dal codice civile e sono validi solo per le parti
che li stipulano.
Un’organizzazione sindacale può essere vista su due piani: quello istituzionale e quello associativo. La natura
dei contratti è privatistica ma entra il gioco anche l’art. 36 e segg. della carta costituzionale (il lavoratore ha
diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad
assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa). A livello aziendale, dove più forte è la
rappresentatività, con la creazione delle RSA (o RSU dal ’93) si producono accordi vincolanti per tutti, anche
per i non iscritti ad un sindacato.
Col D.L. 165 del 2001 sull’ordinamento del lavoro nelle pubbliche
amministrazioni si è reso vincolante per tutti l’accordo sottoscritto da un
numero di sigle che rappresentino almeno il 51% dell’insieme degli iscritti.
Ad ogni modo, contrattazioni su tavoli separati sono previste e ci sono norme che le disciplinano. Unica
salvaguardia posta è quella della pari dignità.
Si possono ipotizzare quattro diverse ipotesi:
1. il datore di lavoro è iscritto al sindacato firmatario ed allo stesso modo è iscritto il lavoratore;
2. il datore di lavoro è iscritto ma il lavoratore non è iscritto al sindacato firmatario;
3. il datore di lavoro non è iscritto mentre il lavoratore è iscritto;
4. né il datore di lavoro né il lavoratore sono iscritti ai sindacati che hanno firmato l’accordo.
Nel primo caso il contratto collettivo è ovviamente applicabile tra i soggetti che hanno dato mandato alle loro
organizzazioni.
Anche nel caso 2. il contratto è applicato perché ritenuto "aperto" con la sola eccezione del lavoratore che
dichiara di non aderire, è necessario cioè un "dissenso esplicito" (Cassaz. 2004).
Il caso 3. ed il 4. sono molto simili. Può entrare in gioco l’art 2070 del Cod. Civ. (si applica il CCNL che regola
i rapporti di lavoro di imprese che svolgono la stessa attività) o il richiamo al già citato art, 36 della
Costituzione. Per la parte economica, in pratica, non è valida una retribuzione inferiore ai minimi tabellari. La
giurisprudenza più recente concorda sul fatto che, indipendentemente dall’iscrizione alle organizzazioni
sindacali, se un imprenditore ha già applicato un contratto, dovrà continuare a farlo.
Quali potranno essere le conseguenze di una trattativa a tre soggetti anziché a quattro (con l’esclusione di una
organizzazione sindacale)? C’è il rischio che l’azienda sia accusata di comportamento antisindacale? Questo
rischio è remoto se le proposte aziendali sono le stesse nei confronti delle diverse sigle. I tavoli separati
dovranno essere tempestivi, ravvicinati e non capziosi. I lavoratori possono poi aderire personalmente pur non
essendo iscritti alla sigla firmataria.
E’ quindi possibile un contratto separato, anche se le conseguenze
dipenderanno dalla maggiore o minore rappresentatività delle sigle non
firmatarie. Non dimentichiamo che chi opera sul terreno dei contratti tra
aziende e lavoratori deve essere portatore di interessi collettivi.
Gianluca Gorretta
Mi è parso interessante passare in rassegna i punti che caratterizzano i recenti accordi che modificano gli assetti
contrattuali (l’accordo quadro 22/1/09 "Riforma degli assetti
contrattuali" e l’accordo interconfederale 15/4/09 sulla sua
attuazione). Possiamo individuarne cinque:
1. la modifica dell’indice previsionale che sostituisce il tasso di inflazione programmata per il calcolo
dell’adeguamento del salario al costo della vita;
2. modifica del valore punto sul quale applicare il nuovo indice previsionale;
3. la compressione della durata delle trattative con un meccanismo di copertura economica da applicare solo
nel caso di rispetto dei tempi e delle procedure;
Validità erga omnes
o solo per gli iscritti?
Un contratto "separato"
è possibile
Che cosa dice l’accordo quadro
4. la previsione di incentivi economici ottenibili con riduzione di tasse e contributi al raggiungimento di
obiettivi legati al miglioramento della competitività aziendale;
5. previsione di un elemento di garanzia contributiva a favore dei lavoratori che non beneficiano della
contrattazione di secondo livello (superminimi individuali fino ad erodere l’elemento perequativo).
Sul punto 1, la sostituzione dell’inflazione programmata con un nuovo indice (IPCA,
armonizzato a livello europeo e depurato dagli effetti dei costi energetici) provoca
diverse critiche: si riduce la possibilità di difesa del potere d’acquisto; non dà sufficiente garanzia la scelta di
un soggetto terzo per la definizione degli scostamenti tra l’inflazione prevista e quella reale; un comitato
paritetico interconfederale verificherà gli eventuali scostamenti che saranno recuperati entro la vigenza di
ciascun contratto, in termini di variazioni dei minimi.
Il punto 2 prevede di legare il "valore punto" alla retribuzione contrattuale e non a quella reale: ai detrattori
dell’accordo che parlano di rallentamento della dinamica salariale e di appiattimento retributivo, viene risposto
che la compensazione dovrebbe essere apportata dalla contrattazione di secondo livello, che scambia maggior
salario con più produttività.
Al punto 3 abbiamo la novità di un meccanismo che dovrebbe snellire e facilitare le fasi di preparazione e
svolgimento delle trattative. E’ prevista una copertura economica, dei tempi certi ed un periodo di tregua
sindacale. La parte attuativa di questo meccanismo è però ancora da definire.
Il punto 4 introduce la possibilità di sgravi contributivi (a favore delle imprese) e fiscali (a favore dei
lavoratori) per quel che rientra nella contrattazione aziendale, cioè di
secondo livello, di natura economica (sgravio è tutto ciò che è
favorevole rispetto al trattamento ordinario). E’ importante sottolineare
qui lo stretto collegamento tra premi variabili, agevolazioni economiche
e contrattazione aziendale. Già oggi, le misure di decontribuzione dei premi aziendali sono previste solo per le
aziende che abbiano stipulato e presentato contratti aziendali collettivi. Non può essere soggetto a sgravi fiscali
o a decontribuzione ciò che viene erogato al di fuori dei criteri definiti (incrementi di produttività, innovazione
ed efficienza organizzativa ed altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico
dell’impresa) e senza un accordo collettivo. Il rischio di abusi è concreto, come appare dalle misure
sperimentali già messe in atto (attivate per la prima volta dal DM 27/5/08) con limiti di importo.
La misura di cui al punto 5 è già prevista in alcuni CCNL, per aziende che per ragioni dimensionali o di crisi
del settore siano sprovviste di contrattazione di secondo livello. Non costituisce quindi una novità ma piuttosto
l’estensione di una misura già in vigore.
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In conclusione, Michele Bramardi pone a Giuseppe Gherzi una
domanda: - Confindustria è disposta a "pagare una cambiale" alle
organizzazioni firmatarie dell’accordo, per favorirne la buona riuscita?
Risponde Gherzi: - sappiamo che gli accordi separati sono sempre più
cari (se non altro perché un sindacato non può permettersi di vedersi scavalcato da sinistra…). I momenti sono
molto difficili (in certi settori dell’auto pesante si registrano cali fino all’80%! Paradossalmente, ma non
troppo, quando le cose vanno male Confindustria è più forte (parliamo di forza contrattuale). Si potrà "tenere"
meglio. Ma le regole saranno da rispettare. Confindustria è pronta a fare la sua parte, ma le organizzazioni
sindacali dovranno essere in grado di fare altrettanto.
Bramardi conclude la serata con una considerazione: la
contrattazione è sempre stata, nel bene e nel male, l’anima
delle relazioni industriali e questa riforma degli assetti
contrattuali è sicuramente un importante tassello per
affrontare un prossimo futuro che non si presenta facile: eravamo in crisi nel ’93, siamo in crisi nel 2009, allora
ci fu l’accordo interconfederale, oggi c’è la riforma degli assetti contrattuali. E’ solo una coincidenza? Servirà
alla ripresa?
Allora fu così. Speriamo che la storia si ripeta.
Bartolomeo Berello

2 commenti:

Anonimo ha detto...

molto intiresno, grazie

Anonimo ha detto...

imparato molto