martedì 12 febbraio 2008

Chi vuole cambiare la classe dirigente?

CHI VUOLE CAMBIARE LA CLASSE DIRIGENTE?
Interessante leggere le riflessioni e le considerazioni di Tito Boeri e Vincenzo Galasso riprese dal sito “La Voce” che contribuisce al dibattito pubblico di questo scottante problema.
Secondo i sondaggi ben il 58 per cento degli italiani è insoddisfatto dei rappresentanti politici. E tutti a parole in questi primi scampoli di campagna elettorale dicono di voler cambiare.
Tre criteri per capire se lo faranno sul serio: sono favorevoli a un sistema maggioritario a due turni, a tenere primarie a livello locale nella selezione dei candidati e a estendere il diritto di voto ai sedicenni sia alla Camera che al Senato?

Non c’è rigetto della politica in Italia. C’è rigetto di questa classe politica. I sondaggi lo dicono chiaramente: gli italiani credono che la democrazia, che comporta mediazioni e ricerca di consenso, - e dunque richiede politica - sia il migliore sistema possibile.
Ma ben il 58 per cento è insoddisfatto dei propri rappresentanti politici, il 15 per cento in più di tre anni fa, secondo un recente sondaggio di Eurobarometro. Gli italiani sono, e aggiungeremo giustamente, stufi di essere rappresentati da persone che non hanno potuto scegliere e che non potranno cambiare. Probabilmente anche i cittadini statunitensi sono stufi di una classe politica che ha lasciato loro in eredità la guerra in Iraq, Guantanamo e Abu Ghraib. Non a caso, nelle primarie statunitensi i candidati fanno a gara nel promettere di cambiare, come nelle canzoni di David Bowie.
Ma la differenza fondamentale fra gli Stati Uniti e il nostro paese è che gli elettori americani, se non sono soddisfatti, possono scegliere di punire i loro rappresentanti, di non rieleggerli. Nel nostro caso, fra due mesi andremo a votare sulla base di liste bloccate.
Le scelte le avranno fatte altri: i segretari dei partiti. E così mentre i giornali americani fanno il toto-candidati interrogando le persone, provando a interpretare gli umori dell’elettorato, i giornali italiani cercano di decifrare i silenzi e le dichiarazioni dei segretari di partito per carpirne i segreti: a chi verrà dato un posto in lista in un collegio sicuro? Chi rimarrà fuori? In questi giorni continuiamo a ricevere lettere di cittadini che, disgustati, vogliono astenersi dal voto. È comprensibile. Ma non votare non serve a nulla. Bene semmai premiare chi si impegna a cambiare le regole in base alle quali si scelgono i nostri rappresentanti.
Non è solo una questione di legge elettorale. Vediamo tre regole che possono davvero favorire il ricambio. Bene che ora, prima del voto, i vari schieramenti si pronuncino su queste regole. Sapremo così se intendono davvero rinnovarsi.

1. COLLEGI UNINOMINALI PER MANDARE A CASA CHI HA FATTO MALE
Iniziamo dalla fine. Alla scadenza del mandato elettorale, agli elettori deve essere data la possibilità di giudicare – attraverso il voto – i loro rappresentati politici. Deve essere possibile mandare a casa chi non ha convinto. Oggi non è così.
In primo luogo manca un legame diretto tra elettore ed eletto. Si vota una lista di partito, non un candidato. E poi manca anche un legame geografico tra eletto e circoscrizione. Con il proporzionale a liste bloccate, il singolo politico non ha degli elettori in una determinata circoscrizione politica a cui rispondere. È il partito nel suo insieme a essere giudicato. Non esiste una selezione a posteriori, alla luce del loro operato, dei singoli politici, ma solo un giudizio sul partito nel suo insieme. Il sistema maggioritario a collegi uninominali lega, invece, il politico a una circoscrizione geograficamente limitata e consente agli elettori di giudicarlo ex-post per la sua performance politica in Parlamento.
E di penalizzarlo in caso sia stata giudicata insoddisfacente. Per questo la qualità dell’operato dei politici migliora con un sistema maggioritario. Molto più attivi gli eletti con il maggioritario che col proporzionale. È stato così anche da noi.
2. PRIMARIE A LIVELLO LOCALE
Ma da solo il maggioritario non risolve il problema di selezionare i candidati prima di mandarli in Parlamento. Rischia anzi di porre delle forti barriere all’entrata in politica, demandando la selezione dei candidati nei vari collegi uninominali alle segreterie di partito. L’uso delle primarie anche a livello locale per la determinazione dei candidati nei diversi collegi è dunque fondamentale per aumentare il grado di competizione politica nella selezione ex-ante dei candidati. Consentirebbe di aprire la strada alla candidatura di politici o amministratori che abbiano un buon record a livello locale.
3. DIRITTO DI VOTO AI SEDICENNI SIA ALLA CAMERA CHE AL SENATO
Ma anche con buone regole elettorali e primarie avremo cattivi rappresentanti fin quando gli italiani voteranno i partiti prima delle persone. C’è una parte dell’elettorato che oggi è meno ideologizzata, anche perché ha avuto meno tempo per schierarsi. Si tratta dei giovani. I sondaggi mostrano che sono proprio i più giovani a essere indecisi su chi votare. Nel 2006, fino a poche settimane prima del voto un giovane di età inferiore ai 24 anni su tre non sapeva per chi votare, contro, ad esempio, uno su sei nel caso degli elettori tra i 55 e i 64 anni. Non è un’incertezza dovuta al disinteressamento per la politica. Al contrario, i giovani sono il gruppo di età in cui ci sono meno “non so” in risposta a quesiti sull’operato del governo. E la partecipazione al voto tra i giovani è particolarmente alta in Italia rispetto ad altri paesi. Dando più peso politico ai giovani ci sarà dunque più attenzione nella scelta dei candidati con l’effetto non secondario di rimettere le problematiche giovanili al centro del dibattito politico italiano. Ma come dare più peso politico ai giovani? Se nel 2001, con il sistema misto Mattarellum (con il 75 per cento dei seggi assegnati tramite il maggioritario e il 25 per cento con il proporzionale), fossero stati chiamati a votare per il Senato anche i diciottenni, il loro voto avrebbe potuto cambiare l’orientamento politico in ben 17 regioni su 20: tutte, ad eccezione di Emilia Romagna, Toscana e Val d’Aosta. Da allora il numero di giovani tra il 18 ed i 24 anni è diminuito di oltre il 10%! Quindi oggi per attribuire un ruolo decisivo al voto dei giovani occorre estenderlo ai sedicenni.
Volendo raccogliere questa provocazione, che in termini di “numeri” ha trovato la propria conferma, si potrebbe aggiungere anche:
a) i politici che da anni hanno consolidato la propria posizione politica, “il cadreghino”, sono la quasi totalità ed hanno colto la grande convenienza individuale nel gestire l’area di potere ed economica raggiunte.
b) I partiti, che fondano la propria esistenza su malaugurate sovvenzioni statali, hanno integrato le loro entrate con compromessi clientelari verso tutti i settori delle attività finanziarie ed economiche di rilievo, magari creandone delle proprie.
c) Coloro che si avvicinano alla politica, e quindi devono essere “filtrati” dai suddetti partiti, possono crescere e raggiungere posizioni di rilievo non tanto per il loro contributo di idee nuove ma piuttosto per le relazioni che portano con sé e per la loro disponibilità a sottostare ai “dictat” del vertice.
d) I sindacalisti, che si sono trasformati in politici scalando carriere inimmaginabili in un sistema dove siano premiate le competenze e non le appartenenze, si presentano per quello che erano e non certo per quello che dovrebbero. Quindi invece di guardare all’interesse della collettività degli elettori, mantengono la pseudo-tutela di una sola categoria.
Tutto questo non può che essere risolto grazie all’appoggio, nelle scelte, di chi abbia a cuore il proprio futuro, sappia proporzionare i costi della politica ai risultati attesi in termini di servizi e voglia scardinare non solo la “casta” ma anche le “strutture feudali” dalla stessa create ed autoalimentate da una mentalità che ben poco ha di diverso da quella mafiosa.

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