mercoledì 9 novembre 2011

E se lo Stato italiano andasse in default?

Che faccia ha l'apocalisse per la casalinga di Voghera? Per quanto insolita, la domanda ha il suo senso. In questi giorni è tutto un rimbalzare da giornali e televisioni di espressioni del tipo "rischio-Grecia", "paese sull'orlo del default" e altre formule tanto inquietanti quanto misteriose per l'uomo della strada. La vera preoccupazione dei cittadini, più che le questioni macroeconomiche, sono le ricadute sulle proprie tasche.

La vera domanda è: quali sono gli effetti per le persone se uno Stato fallisce?
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I numeri della crisi

Innanzitutto vediamo la situazione: dopo la Grecia, adesso tocca a noi fare la parte dei sorvegliati speciali in Europa. Pochi numeri spiegano perché:

• 3,9%: è il rapporto tra deficit e Pil. Il deficit è il "rosso" dello Stato, cioè la differenza tra quello che incassa e quello che spende. Secondo il "patto di stabilità", l'accordo che sta alla base dell'euro, questo rapporto non deve superare il 3%.

• 120,6%: è invece il rapporto tra il debito e Pil. Il debito è quanto lo Stato deve ai suoi creditori, cioè tutti coloro (dai piccoli risparmiatori e alle grandi istituzioni finanziarie, agli Stati esteri) che comprando titoli di Stato finanziano la spesa pubblica. In moneta sonante stiamo parlando di quasi 1.900 miliardi di euro. Il tetto massimo per questo rapporto fissato per i paesi dell'euro doveva essere del 60%.

• 5,7%: è il famigerato spread Bund-Btp, ovvero la differenza di rendimento tra il titolo pubblico decennale tedesco (Bund) e l'equivalente italiano (Btp). Che ha toccato appunto il record storico (dalla nascita dell'euro) di 570 punti-base (cioè il 5,7%) di differenza "a favore" del titolo italiano: il Btp promette più del 7%, considerato il punto di non ritorno. Un rendimento troppo alto che indica solo il rischio di non poter essere pagato perché per pagare gli interessi lo Stato emette ancora titoli, cioè continua ad indebitarsi facendo crescere quel 120% sopraindicato. Ovviamente se si stampasse denaro per rimborsare il debito partirebbe un processo inflativo da paura, ma questo, grazie al cielo, non è possibile perché gli accordi europei non lo consentono.

Anche un Paese, dunque, può fallire, come un'impresa. Questo succede quando lo Stato non è più in grado di far fronte ai suoi debiti (e ai relativi interessi) e a sostenere la spesa pubblica (pensioni, sanità, scuola, stipendi dei dipendenti pubblici ecc.).

Il "default" di uno Stato (termine tecnico con cui si indica il fallimento) però non è mai totale, ma ha diversi livelli di gravità. In altre parole lo Stato cerca sempre di "ristrutturare" il suo debito, cioè di raggiungere un accordo per cui, invece di restituire la cifra pattuita, ne rende una inferiore o spalmata su più anni.
Come una qualunque famiglia in difficoltà economica, se lo Stato non ha più soldi può fare sostanzialmente due cose: aumentare le entrate, cioè le tasse, o tagliare le spese. Probabilmente le farà entrambe.
Sul versante delle entrate può aumentare ad esempio le imposte indirette, come ha fatto con l'aumento dell'aliquota Iva. Col rischio però di deprimere ancora di più i consumi e innescare un circolo vizioso (aumenta l'aliquota ma diminuisce il gettito).



La scure sui costi e i Bot spazzatura

Più direttamente lo Stato può ridurre le sue spese. Le voci di costo che in genere (e sicuramente in Italia) pesano di più sui conti pubblici sono tre: le pensioni, la sanità, le retribuzioni dei dipendenti pubblici.

I primi a cadere sotto la scure saranno gli organici e i salari della Pubblica amministrazione, con pesanti conseguenze sui servizi erogati. La stessa sorte toccherà a sanità e pensioni, che già ora in Italia pesano un quarto del Pil.
Naturalmente un’altra voce a cui lo Stato dovrà tagliare i costi riguarda la politica ma non tanto perché questa sia “la soluzione dei nostri mali” bensì per alleggerire la tensione sociale. Infatti l’opinione pubblica attribuisce a tali costi delle gravi inefficienze verso i cittadini fino a considerarli inaccettabili nel rapporto costo/beneficio (sprechi inutili). A questo si aggiunga che i numerosi scandali riferiti ad interessi privati (di alcuni politici anche di spicco) con collusioni (mafia, ‘ndrangheta, sacra corona unita, camorra) nella gestione delle attività pubbliche hanno risvegliato in moltissime persona uno spirito di ribellione al “Sistema Stato vigente”.

La bancarotta ricadrà poi su tutti coloro che hanno investito in titoli di Stato (Bot, Cct, Btp ecc.).
Il Tesoro non potrà più pagare gli interessi (la cedola periodica) e al momento della scadenza del titolo non si potrà più tornare in possesso dell'investimento iniziale.
Qui interviene la ristrutturazione del debito. Lo Stato propone un differimento della restituzione: una parte oggi, una parte domani. Chiaramente un evento del genere porta al crollo del valore del titolo, con possibilità pressoché nulle di rivenderlo.

L'assalto alle banche

L'insolvenza dello Stato si estende quasi automaticamente alle banche. Se i titoli di Stato diventano carta straccia, sono loro le prime a risentirne perché, non ricevendo più gli interessi sul portafoglio, si trovano inevitabilmente a corto di liquidità e rischiano di fallire a loro volta.

Tutto questo innesca un rischiosissimo effetto-domino perché in economia l'elemento psicologico ha un peso enorme: se si diffonde la voce di insolvenza delle banche, tutti i loro clienti correranno a ritirare i depositi prima che sia troppo tardi. Parte l’assalto agli sportelli e non c'è Istituto che possa resistere al prelievo contemporaneo di buona parte dei suoi clienti.

In una situazione di questo genere saltano anche i sistemi di sicurezza esistenti, come il Fondo di garanzia sui conti correnti, operante in Italia come in tutti i paesi europei. Il Fondo copre l'insolvenza delle banche fino a un ammontare di 100mila euro per conto corrente e il suo funzionamento dipende da un accordo interbancario. Ma può funzionare in caso di default di una sola banca, non dell'intero sistema creditizio.


Dopo averlo tracciato questo scenario sembra apocalittico ma per ora è ben lontano.
L'Italia non è la Grecia che offre i propri titoli di Stato con rendimenti del 5% a 6 mesi dopo aver creato un debito pubblico di 350 miliardi di euro pari al 165% del PIL (Contro 120 miliardi e il 121% del PIL dell’Italia ma con 10 milioni di abitanti contro i 60 milioni nostri). In parole povere avendo caricato su ogni cittadino (Dai neonati ai vecchi) un debito statale di € 35.000 pari a circa €100.000 a famiglia, quindi molto ma molto più difficile da pagare se non impossibile. Da qui gli aiuti della BCE di 30 miliardi di euro.
Ma questo è vero anche per le dimensioni e il peso della nostra economia, ben più grossa di quella ellenica. Inoltre in Grecia il 40% dei lavoratori è un dipendente statale, quindi non ha alcuna efficacia nell’incrementare la capacità produttiva dello Stato, ma ne è solo un costo.
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